Piombino vuole diventare la principale città italiana dell’acciaio
C'è un investimento da 3,2 miliardi per un nuovo stabilimento che piace quasi a tutti, ma più per necessità che per scelta
di Francesco Gaeta

C’è una frase che chi arriva a Piombino, 90 chilometri a sud di Livorno, si sente ripetere a proposito della città e della sua storia: «Il fumo è pane». Per oltre un secolo altiforni e acciaierie hanno dato agli abitanti della città “un lavoro a vita”, come è stato spesso definito, facendone il secondo polo siderurgico italiano dopo quello di Taranto. Anche qui dagli anni Sessanta la siderurgia è stata un’industria di Stato, fino a quando nel 1993 lo Stato vendette quel pezzo di Ilva ai privati. Da allora ci sono stati quattro passaggi di proprietà, la fabbrica si è ristretta e lo stesso è accaduto alle aziende dell’indotto.
Oggi il fumo che per anni ha significato un lavoro per molte persone sembra stia per tornare in grande quantità. Mentre Taranto prova a uscire da una crisi che sembra senza soluzione, Piombino potrebbe tornare a essere ciò che già è stata: una città la cui economia è costruita sull’acciaio.
Metinvest Adria ha deciso di investire a Piombino 3,2 miliardi di euro per produrre e lavorare acciaio: è una joint venture (cioè un accordo tra più aziende) formata dal gruppo italiano Danieli, che produce impianti siderurgici, e da quello ucraino Metinvest, che tra Europa e Stati Uniti ha più di 70mila dipendenti. Il piano è realizzare un nuovo stabilimento siderurgico, che dovrebbe sorgere su un pezzo dell’area industriale, a ridosso delle sei grandi pale eoliche radenti alla costa, la prima cosa che si vede arrivando da quelle parti in auto.
Per Piombino può essere un rilancio dopo anni di declino. Dall’alto, l’area del polo siderurgico antistante il porto appare enorme – misura oltre 9 chilometri quadrati – ed è piena di resti in cemento. È scomparso lo storico altoforno, spento 11 anni fa e poi demolito. Non ci sono più le acciaierie, gli impianti che trasformano la ghisa di un altoforno: sono state smontate a pezzi e rivendute come rottami. Sopravvive a fatica la Liberty Magona, che ha 130 anni di storia, produce lastre zincate e potrebbe presto essere venduta.
Del vecchio stabilimento un tempo di proprietà pubblica è rimasto attivo solo un impianto di laminazione, cioè di lavorazione secondaria (e quindi l’acciaio qui non viene prodotto, ma solo lavorato): la multinazionale indiana Jsw, che qui è arrivata per ultima nel 2018, vi produce rotaie. Ci lavorano 1.300 persone, sei volte in meno rispetto a quante erano nello stabilimento negli anni Ottanta, e 785 di queste sono in cassa integrazione.
La produzione è in uno stallo che dura da mesi, e secondo i sindacalisti cittadini delle varie sigle metalmeccaniche anche Jsw potrebbe lasciare Piombino. Alla fine di novembre, infatti, si doveva firmare un accordo tra governo, azienda ed enti locali per rilanciare lo stabilimento che è ormai vecchio, e al quale si prevedeva di destinare 143 milioni, 33 dei quali di sostegni pubblici. La firma però è slittata a data da destinarsi, stando a più fonti vicine alla questione a causa di disaccordi sugli sgravi richiesti dall’azienda su alcuni costi, tra cui quelli energetici.
Nello stabilimento che sarà costruito da Metinvest Adria sono previsti due forni elettrici, la tipologia di impianto che ormai in tutta Europa sta sostituendo i vecchi altiforni a carbone, molto più inquinanti. A detta dell’azienda sono tecnologicamente così avanzati da ridurre le emissioni del 30 per cento rispetto ai forni elettrici oggi in uso. Verranno alimentati con rottami e “ferro preridotto”, ottenuto chimicamente dal minerale. Produrranno 2,7 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, più di quanto oggi ne escono da Taranto, l’impianto siderurgico più grande d’Italia ma che per vari motivi lavora a ritmi molto inferiori alla quota massima prevista di 6 milioni di tonnellate all’anno.
Nei giorni scorsi il governo ha dichiarato il progetto di Metinvest Adria «di preminente interesse strategico». È una formula tecnicamente necessaria alla nomina di un commissario straordinario che dovrebbe coordinare e accelerare l’iter burocratico e portare all’avvio dei lavori entro il 2026.
Nel nuovo stabilimento potrebbero essere occupate tra 800 e 1.000 persone, e tra queste dovrebbero esserci molti dei lavoratori in cassa integrazione dell’impianto di Jsw. Per questo sono favorevoli anche persone che in passato dicevano di essere contrarie al far tornare l’acciaio decisivo nell’economia cittadina. Il sindaco Francesco Ferrari, il primo sindaco di destra in una città da sempre a sinistra, eletto per un secondo mandato nel 2024, in campagna elettorale aveva puntato molto sulla promozione di uno sviluppo alternativo, basato su turismo, cantieristica navale e itticoltura, settori molto cresciuti negli ultimi anni. Oggi però dice di essere «molto soddisfatto» dell’investimento di Metinvest Adria: «Abbiamo avuto garanzie che l’impianto sarà costruito con le tecnologie più moderne e meno inquinanti, sarà lontano dal centro e non sottrarrà altro spazio per usi industriali».
Il fatto che in una città in cui la siderurgia sembrava un residuo del passato si progetti uno stabilimento di queste dimensioni può sembrare strano, nei giorni in cui il settore è nel pieno della crisi dell’ex Ilva e degli stabilimenti di Taranto e Cornigliano. Ma a studiare il piano industriale di Metinvest Adria, la scelta si spiega proprio con ragioni che hanno a che fare con il mercato italiano dell’acciaio, con il tipo di metallo che si intende produrre qui e anche con la collocazione geografica della città.
L’Italia è uno dei maggiori produttori di acciaio in Europa, ma allo stesso tempo è anche uno dei paesi che ne importano di più. Ogni anno ne produce circa 20 milioni di tonnellate, una quantità che mantiene il paese stabilmente al secondo posto nell’Unione Europea, dopo la Germania. La struttura produttiva del settore però è molto sbilanciata: l’Italia è forte nel comparto degli acciai lunghi – tondi, travi, barre – utilizzati in edilizia e in carpenteria, e in questo segmento le aziende italiane esportano 6 milioni di tonnellate all’anno.

Lavorazione di travi d’acciaio in un impianto siderurgico (Oliver Berg/dpa/ANSA)
È invece molto diversa la situazione degli acciai piani, quelli che escono dagli impianti in forma di lastre arrotolate in bobine (in gergo Hrc, Hot rolled coils), destinati a settori produttivi tecnologicamente più evoluti, tra cui quello dell’auto, quello degli elettrodomestici e la meccanica. Qui la capacità produttiva nazionale è insufficiente, e il risultato è che l’Italia importa oltre 6 milioni di tonnellate di coils all’anno. Quello italiano è dunque un settore che vive un paradosso: l’Italia esporta molto acciaio ma ne importa altrettanto, perché produce tipologie diverse da quelle che servono all’industria manifatturiera.

Rotoli di acciaio: l’Italia ne importa attualmente circa 6 milioni di tonnellate all’anno (Fabian Strauch/dpa/ANSA)
Nelle intenzioni di chi sta investendo a Piombino il nuovo impianto dovrebbe colmare questo vuoto. Produrrà Hrc, le bobine grezze che arrivano alle aziende di trasformazione, che le lavorano e rifiniscono per le industrie a cui serve l’acciaio. Saranno lastre di formati diversi per spessore (da meno di un millimetro fino a 25) e larghezze (fino a due metri), cosa che dovrebbe aumentare gli utilizzi possibili e soddisfare una domanda che altrimenti si rivolgerebbe all’estero.
Un altro fattore che spiega perché ha senso investire a Piombino è la sua posizione: il 90 per cento delle oltre 20mila aziende della meccanica italiana si trova entro un raggio di 300 chilometri, in un’area in cui la rete ferroviaria e autostradale è molto capillare e accessibile, cosa che riduce i costi di trasporto rispetto ad altri impianti come Taranto. Il porto poi ha fondali profondi 20 metri, indispensabili per l’attracco delle grandi navi che trasporteranno materie prime e prodotti finiti.
Lo stabilimento in città mette quasi tutti d’accordo, ma più per necessità che per scelta, quasi fosse il male minore. Per Ugo Preziosi, che dopo molti anni di lavoro e sindacato oggi presiede l’associazione Oltre la piazza della val di Cornia, «qui sono tutti a dire che bisogna continuare a colare acciaio, ma se ne farebbe volentieri a meno e ci si guadagnerebbe in salute: l’industria pesante inquina, ma un altro lavoro non si trova. È come se in un deserto uno ti allunga una borraccia, come fai a dire di no?».
La cosa da notare è che l’arrivo in città di Metinvest Adria suscita reazioni piuttosto contrastanti tra gli imprenditori. Piace molto alla Confindustria locale, che parla di «una coraggiosa iniziativa industriale che può riportare produzione, lavoro qualificato e tecnologia in un sito strategico»; ma dispiace parecchio a Federacciai, l’organizzazione di Confindustria che a livello nazionale rappresenta i produttori italiani del settore. Nell’ultima assemblea che si è svolta a Bergamo a metà novembre, il presidente Antonio Gozzi ha detto che il nuovo impianto «disintegrerà gli equilibri nazionali e farà chiudere la siderurgia del Nord. Non lo accetteremo, e non accetteremo che faccia concorrenza all’ex Ilva (che ha diversi stabilimenti al Nord, ndr) con aiuti di Stato».
La prima ragione con cui viene argomentata questa posizione è che per alimentare i due nuovi forni elettrici di Piombino serviranno circa tre milioni di tonnellate di rottami all’anno, materiale di cui secondo Federacciai c’è in Italia una forte carenza. Secondo Luca Villa, amministratore delegato di Metinvest Adria, «è un falso problema. L’Europa esporta circa 18 milioni di tonnellate di rottami all’anno e quindi ce n’è per tutti».
Quanto all’ex Ilva, secondo Villa non c’è il rischio di sovrapposizione: «A Taranto e Cornigliano si producono laminati, cioè lastre verniciate e zincate, pronte all’uso industriale, che è lo stadio finale della lavorazione. Noi ci fermeremo alle bobine, al semilavorato. Sono due mercati diversi, è come se si dicesse che un’azienda di motori o pneumatici è in concorrenza con la Mercedes».
Gli “aiuti di Stato” di cui parla Federacciai a proposito di Metinvest Adria ammontano a circa 320 milioni e sono quelli del contratto di sviluppo, uno strumento che finanzia la mitigazione degli impatti ambientali. Dal 1998 Piombino è stato dichiarato Sito di interesse nazionale (Sin), cioè un’area industriale altamente inquinata: nel perimetro del nuovo impianto Metinvest Adria ci sono 720mila metri cubi di scorie dalla lavorazione dell’acciaio sparsi su 36 ettari, quasi mezzo chilometro quadrato.
Secondo Adriano Bruschi, che nell’impianto siderurgico ha lavorato per 42 anni e ora presiede il circolo di Legambiente di Piombino, l’accordo di programma «non chiarisce a chi tocchi il lavoro di rimozione e trattamento delle vecchie scorie». Interpellata su questo, Metinvest Adria ha detto al Post che, sebbene la cosa non sia stata formalizzata, l’azienda si è assunta «in via informale» quest’onere, per il quale stima costi per circa 180 milioni e su cui si riserva di rivalersi sulle aziende che per decenni hanno prodotto le scorie senza smaltirle.



