Le precarie condizioni del CNR
Il più grande ente scientifico in Italia ha migliaia di ricercatori precari e pochissimi soldi per regolarizzarli, anche a causa del PNRR

Da venerdì 5 dicembre in via Aldo Moro a Roma, davanti alla sede centrale del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR, il più grande ente pubblico di ricerca in Italia), una manciata di tende accoglie chiunque salga la lunga scalinata che conduce al palazzo. Al loro interno e in alcuni locali occupati della sede vivono a turno gruppi di ricercatori, che dopo anni di lavoro precario chiedono al governo e al parlamento che siano stanziati i fondi per i loro contratti a tempo indeterminato, come previsto dalla legge. I tempi sono però stretti perché la legge di bilancio per il 2026 è prossima all’approvazione e i fondi previsti non saranno sufficienti per provvedere a tutti i contratti.
Il CNR esiste da più di un secolo, ha circa 9mila dipendenti e più della metà di questi si occupano di fare materialmente ricerca in una grandissima quantità di ambiti di studio, dalla fisica alla chimica passando per le scienze biomediche, l’ingegneria, le scienze agroalimentari e i beni culturali. Le persone che fanno ricerca lavorano in 88 istituti e ci sono circa 230 laboratori e sedi in Italia. È una struttura enorme, fa capo alla pubblica amministrazione e non è sempre semplice da gestire. Una parte importante di chi lavora al suo interno per fare ricerca oggi è precaria.
Tenere traccia di tutte le persone che lavorano al CNR a tempo determinato o con contratti di collaborazione non è semplice, ma si stima che siano circa un terzo: più di tremila persone. Il loro lavoro è importante perché permette al CNR di avere i fondi per fare la ricerca grazie ai progetti che vengono finanziati singolarmente. Il CNR riceve anche denaro dal ministero dell’Università e della ricerca, ma questo serve quasi interamente a coprire gli stipendi di chi è assunto a tempo indeterminato, quindi i soldi per i singoli progetti di ricerca sono essenziali per il funzionamento dell’ente.
«Noi a dicembre del 2021 eravamo rimasti con qualche centinaio di precari, ed era una quantità assolutamente fisiologica» spiega Nicola Fantini, componente del consiglio di amministrazione del CNR. La drastica riduzione dei contratti a tempo determinato era stata resa possibile da una serie di misure straordinarie, legate soprattutto alla cosiddetta “legge Madia” (75/2017), che aveva previsto meccanismi per risolvere l’annoso problema dei lavoratori da stabilizzare nella pubblica amministrazione. Il CNR fu tra gli enti che più sfruttarono quelle norme che, tra le altre cose, prevedevano l’assunzione a tempo indeterminato del personale con almeno tre anni di servizio nei precedenti otto e l’avvio di concorsi dedicati ai precari, con graduatorie specifiche. Poi arrivò il PNRR.
La ricca disponibilità di fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il grande piano di riforme e investimenti da realizzare entro giugno del 2026 finanziato con fondi europei, favorì l’avvio di nuovi progetti di ricerca in Italia nelle università e in altri enti come il CNR. I progetti dovevano essere per forza a termine, visto che le somme di denaro erano una tantum, ma secondo diverse persone che fanno ricerca non ci si pose molto la questione di che cosa sarebbe successo dopo, a fondi finiti.
Mariacristina Gagliardi, che si occupa di nanoscienze alla Scuola normale superiore di Pisa e che fa parte del movimento Precari Uniti del CNR, dice che le nuove assunzioni a tempo determinato hanno avuto un forte impatto: «Il PNRR ha inserito all’interno del CNR, ma anche delle università, numerosissime persone, arrivando a generare una bolla di precariato veramente enorme». Ora molte di quelle persone hanno raggiunto i requisiti della legge Madia per chiedere di essere assunte a tempo indeterminato, insieme ad altri ricercatori già in attività prima del PNRR, ma il governo non stanzia risorse a sufficienza per farlo.
Proprio per questo, dopo mesi di mobilitazioni, nel dicembre del 2024 i precari avevano ottenuto l’inserimento nella legge di bilancio per il 2025 di un finanziamento di circa 10,5 milioni di euro, grazie all’interessamento dei partiti di opposizione. La cifra non era sufficiente per risolvere integralmente il problema, ma era vista come un primo segnale per avviare un processo di stabilizzazione. Il ricorso al finanziamento è però rimasto bloccato a lungo, a causa dei gravi ritardi con cui il governo ha provveduto al rinnovo delle cariche nel CNR, che era quindi rimasto per mesi senza presidente e quattro dei cinque membri del consiglio di amministrazione.
Superata quella difficile fase di stallo la scorsa estate, il CNR aveva ripreso la questione avviando una ricognizione per chiedere al personale con almeno tre anni di servizio di manifestare il proprio interesse alla stabilizzazione. Alla fine le domande pervenute sono state più di 800, ma come dice Fantini: «Ci prepariamo con i soldi che ci sono a stabilizzare circa 180 persone che sono davvero poche rispetto al numero complessivo di colleghi che sono precari». Secondo Fantini «dovremmo avere qualche notizia su come sarà strutturata la graduatoria verso la fine della settimana». Da questo processo sono escluse le persone con contratti flessibili o di collaborazione, che di fatto fanno spesso un lavoro paragonabile a chi è assunto all’interno del CNR.
Per proseguire con le stabilizzazioni sarebbero necessari altri fondi, che al momento non sono però previsti dal governo: «Non è una questione di volontà [del CNR, ndr], è proprio una questione di finanziamenti alla ricerca che non ci sono in questo momento» dice Fantini. Il movimento Precari Uniti aveva chiesto un incontro con il nuovo presidente del CNR, Andrea Lenzi, per il 5 dicembre vista la scadenza parlamentare per discutere la legge del 15 dicembre, ma l’incontro era stato rinviato portando alla decisione di organizzare il presidio permanente, con tende e striscioni sulla scalinata della sede principale dell’ente.
La conclusione del PNRR nel 2026 porterà alla scadenza migliaia di contratti, un problema che riguarda numerosi ambiti della ricerca anche al di fuori del PNRR. «Qualcuno ha detto che abbiamo esagerato – ricorda Fantini – ma, insomma, ci hanno chiesto di partecipare al PNRR e quindi tra i mandati del CNR c’era quello di prendere persone di qualità, e provare a tenerle». Era stata prospettata la possibilità di trattenere almeno un 40 per cento delle persone con contratti legati al PNRR, ma senza le risorse necessarie appare improbabile che lo si possa fare. Migliaia di professionisti altamente qualificati dovranno cercare nuovi progetti e in molti casi dovranno abbandonare quelli avviati.
Una quota di precariato nella ricerca è fisiologica e, soprattutto nei primi anni di carriera, rappresenta una sorta di passaggio obbligato in un settore complicato e con molta burocrazia dietro. «È comprensibile che per i primi due o tre anni le persone vogliano capire realmente se questo è il lavoro che vogliono fare oppure no. Finché si tratta di quel periodo è accettabile. Il problema è per i precari storici, cioè quelli che magari hanno più di cinque, dieci o perfino quindici anni di contratti a termine alle spalle» conferma Gagliardi, che è precaria da quasi sedici anni e che solo ora ha potuto partecipare alla manifestazione di interesse alla stabilizzazione, perché prima le mancavano i requisiti.
Oltre agli 800 che hanno fatto come lei, si stima che presto ci possa essere almeno un migliaio di altri aventi diritto alla stabilizzazione, ma in assenza di finanziamenti adeguati è improbabile che possa cambiare la loro condizione. Il governo e in particolare la ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, avevano annunciato alcuni mesi fa un nuovo finanziamento, che però non è strutturale ed è il frutto dello spostamento da altri fondi già destinati alla ricerca, che non aggiungono quindi nessuna risorsa per le stabilizzazioni.
Molti progetti di ricerca finanziati col PNRR sono stati portati a termine, ma tanti altri che avrebbero richiesto più tempo e nuovi finanziamenti saranno chiusi, con la perdita di professionalità e conoscenze. Alla Scuola normale di Pisa, in questi anni Gagliardi racconta di avere lavorato a un piccolo sensore portatile, un sistema a basso costo per lo screening di alcune malattie degenerative come il Parkinson: «Funziona con una lacrima, ma se le cose vanno così finirà in un cassetto».



