Le esportazioni cinesi vanno alla grande nonostante i dazi di Trump

Segno che il paese è riuscito a indirizzare altrove i suoi prodotti

Una nave cargo al porto di Qingdao, nella Cina orientale (Chinatopix via AP)
Una nave cargo al porto di Qingdao, nella Cina orientale (Chinatopix via AP)
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Secondo i dati della dogana cinese il surplus commerciale della Cina di novembre è stato di 112 miliardi di dollari, che non solo è il terzo più grande di sempre in un singolo mese ma che ha anche portato il paese a superare per la prima volta nella sua storia i mille miliardi di dollari di surplus annuale: è un valore che aveva solo sfiorato nel 2024 e che nel 2025 ha raggiunto già un mese prima della fine dell’anno.

Il surplus commerciale indica la differenza tra le esportazioni e le importazioni di un paese, ed è quindi una misura di quanto reddito riesce a produrre per sé grazie al commercio internazionale: la Cina è un paese storicamente esportatore, come l’Italia e la Germania, mentre esistono paesi che al contrario importano più di quanto esportano, come gli Stati Uniti, che quindi sono in deficit commerciale. L’andamento del surplus della Cina è notevole non solo perché è la prima volta che arriva ai mille miliardi di dollari, ma soprattutto perché ci è arrivato nonostante i dazi del presidente statunitense Donald Trump.

La Cina è stato infatti il paese in assoluto più colpito dall’ostilità commerciale degli Stati Uniti: ad aprile i dazi statunitensi contro le merci cinesi erano arrivati al 145 per cento del prezzo della merce; anche la Cina li aveva portati a livelli simili, col risultato che il commercio tra i due paesi si era compromesso. Ora fra Trump e il presidente cinese Xi Jinping le cose sono migliorate: hanno recentemente raggiunto un accordo, i dazi complessivi sono stati più che dimezzati, e le restrizioni commerciali ridotte.

Non significa però che la guerra commerciale di Trump non abbia intaccato il commercio tra Stati Uniti e Cina: a novembre le esportazioni verso gli Stati Uniti si sono ridotte del 29 per cento rispetto allo stesso mese del 2024, segnando l’ottavo mese consecutivo di calo a doppia cifra e il più grande da agosto.

La Cina è però riuscita a direzionare altrove le sue esportazioni, complessivamente più che compensando la perdita sul mercato statunitense. Del resto è da anni che il governo e le aziende cinesi hanno iniziato a ridurre la loro esposizione verso gli Stati Uniti, la cui ostilità commerciale risale al primo mandato di Trump.

Un addetto del porto di Yangluo, a Wuhan, nella Cina centrale (AP Photo/Andy Wong)

A novembre le esportazioni verso l’Unione Europea sono aumentate di quasi il 15 per cento rispetto a novembre del 2024, con vendite soprattutto verso Francia, Germania e Italia; sono cresciute di quasi il 28 per cento le esportazioni verso l’Africa, e dell’8,4 quelle verso l’ASEAN, il gruppo di dieci paesi del Sudest asiatico unite da un accordo commerciale.

Le aziende cinesi si sono anche arrangiate spostando l’assemblaggio finale dei loro prodotti proprio nei paesi dell’ASEAN (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Timor Est e Vietnam), per poi spedire da lì i prodotti finiti negli Stati Uniti, aggirando così i dazi specifici contro la Cina per una parte dei suoi prodotti.

Inoltre il surplus commerciale non è stato tanto intaccato dai dazi statunitensi anche per una questione matematica: tra gennaio e novembre le esportazioni cinesi negli Stati Uniti si sono ridotte di quasi il 20 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; allo stesso tempo anche le importazioni cinesi di merci statunitensi si sono ridotte di circa lo stesso ammontare, dato che la Cina aveva interrotto quasi del tutto gli acquisti di soia statunitense, con molti danni al settore agricolo degli Stati Uniti.

Il risultato di queste due tendenze è stato praticamente nullo sul saldo commerciale (che, lo ricordiamo, è la differenza tra esportazioni e importazioni). Nonostante i dazi il rapporto di forza commerciale tra Cina e Stati Uniti è rimasto lo stesso: la Cina ha continuato a esportare negli Stati Uniti merci per un totale complessivo di tre volte tanto rispetto a quanto importa.

Questi dati vanno inseriti comunque nel generale contesto di difficoltà dell’economia cinese negli ultimi anni, segnato da una gravissima crisi immobiliare, da un grosso calo dei consumi interni, e da una disoccupazione giovanile preoccupante. Il successo del commercio internazionale cinese è quindi necessario affinché l’economia continui a reggere e a crescere al solito ritmo; allo stesso tempo il fatto che la seconda economia mondiale dipenda ancora così tanto dal commercio con l’estero è un segnale preoccupante, soprattutto in un contesto globale sempre più incerto come quello attuale.

Alla luce di tutto questo va letta anche una delle forze dietro l’eccezionale andamento del surplus commerciale cinese, cioè una valuta tenuta artificialmente debole dalla banca centrale cinese (che a differenza delle banche centrali occidentali non è del tutto indipendente dalla politica).

Il renminbi, la moneta cinese conosciuta soprattutto come yuan, si è molto indebolito negli ultimi anni rispetto alle altre valute, il che ha reso le merci cinesi, già meno care di quelle occidentali, ancora più convenienti: servono infatti meno dollari o euro per comprare in yuan. Questo è vero soprattutto per l’euro, verso cui la moneta cinese ha perso più del 20 per cento del suo valore negli ultimi tre anni e mezzo; contro il dollaro solo il 5 per cento.

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