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  • Giovedì 4 dicembre 2025

Quanto sono lunghe le lunghe attese nei pronto soccorso

La classifica degli ospedali italiani dice che è normale aspettare più di 8 ore, e che due ospedali romani sono quelli messi peggio

Un paziente viene portato al pronto soccorso
Un paziente viene portato al pronto soccorso (Stefano Porta / LaPresse)
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In molti pronto soccorso è normale aspettare più di otto ore tra l’entrata e il ritorno a casa, anzi otto ore è un tempo accettabile se paragonato ai giorni passati su una barella in corridoio raccontati da diverse inchieste giornalistiche negli ultimi anni. Per capire davvero quali sono le condizioni negli ospedali italiani bisogna però considerare l’attesa media di tutti i pazienti, sia chi se l’è cavata con un consulto di pochi minuti sia chi è stato costretto ad abbandonare il pronto soccorso dopo un’attesa lunghissima. I dati aggiornati al 2024 sono stati messi in fila dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), che ha compilato una classifica con la maggior parte degli ospedali italiani.

Già il fatto che il punto di partenza sia un’attesa di otto ore la dice lunga sulle condizioni degli ospedali. Ma non è un numero preso a caso: otto ore è il limite raccomandato dalle linee guida nazionali per gestire al meglio una diagnosi e una prima terapia, anche quando ci sono casi complessi. Oltre alla percentuale di pazienti che hanno dovuto aspettare più di otto ore è stata diffusa anche la percentuale di pazienti che hanno abbandonato il pronto soccorso prima della visita.

Quattro ospedali universitari sono ai primi posti della classifica: significa che le cose vanno male. Al policlinico Tor Vergata di Roma più di un paziente su quattro deve aspettare più di otto ore; al Sant’Andrea, sempre a Roma, il 23,6 per cento dei pazienti aspetta più di otto ore, all’ospedale universitario di Cagliari il 23,1 per cento, al Giaccone di Palermo il 21,9. Il primo ospedale non universitario in classifica è ancora di Palermo, il Cervello, dove il 20,7 per cento dei pazienti aspetta più di otto ore.

Ma come mostra l’infografica con tutti i dati, il Cervello è anche l’ospedale dove nel 2024 c’è stata la più alta quota di abbandoni, ovvero di persone che se ne sono andate perché aspettavano da troppo tempo. Al secondo posto ci sono gli ospedali dei Colli di Napoli – il Monaldi, il Cotugno e il CTO (Centro Traumatologico Ortopedico) – con un tasso di abbandono del 23,1 per cento.

Le lunghe attese hanno molte cause. La prima è senza dubbio l’aumento del numero dei cosiddetti accessi impropri, cioè delle persone che vanno al pronto soccorso per problemi che potrebbero essere gestiti dai medici di medicina generale o dalle guardie mediche (la continuità assistenziale, per usare il termine più corretto).

In tutti gli ospedali italiani infatti la maggior parte degli accessi è in codice verde e bianco. I livelli di urgenza vanno da 1 a 5, e ciascuno corrisponde a un colore. Il numero 1 indica il livello massimo di emergenza, in codice rosso, quando il paziente è in pericolo di vita e l’intervento deve essere immediato. Il 2 sta per “urgenza” ed equivale al codice arancione, e il trattamento va eseguito entro 15 minuti. Il 3, in azzurro, è l’urgenza chiamata differibile con tempo di attesa di un’ora. Con il 4 l’urgenza è minore, in verde, e si può aspettare fino a 2 ore. Il 5, in codice bianco, è un problema non urgente da trattare entro 3 ore.

L’aumento degli accessi impropri è dovuto in parte all’invecchiamento della popolazione e del ruolo sempre più centrale degli ospedali a discapito della rete dei medici, nota anche come medicina territoriale. Gli ospedali sono percepiti generalmente come posti più sicuri e attrezzati, a cui rivolgersi anche a costo di aspettare ore.

La prevalenza di accessi impropri dimostra che servirebbe un filtro intermedio, perché la decisione di andare al pronto soccorso non dovrebbe essere basata esclusivamente su una percezione personale, ma sul consiglio di un medico, che sia il proprio medico o una guardia medica. Il filtro dovrebbe valere a maggior ragione per i pazienti cronici e le persone anziane, ma in molte regioni è molto complicato contattare il proprio medico, anche solo al telefono.

Un’altra causa delle lunghe attese è la mancanza di posti letto nei reparti, che costringe i medici del pronto soccorso a tenere i pazienti sulle barelle nei corridoi, anche se già visitati e con una diagnosi. È un fenomeno chiamato boarding. Oltre a essere un danno per i pazienti, il boarding costringe il personale dei pronto soccorso a dedicare tempo e risorse a malati già presi in carico, allungando l’attesa per tutti gli altri.

Anche le lunghe attese per esami e visite incidono sulla gestione dei pronto soccorso: spesso i tempi di attesa sono così lunghi e incerti che molte persone, esasperate e spesso impaurite, decidono di presentarsi al pronto soccorso per avere una diagnosi o un esame il prima possibile. Anche in questo caso si parla di accessi impropri.

Tutto questo ha reso i reparti di pronto soccorso un posto dove lavorare è spesso sfiancante. Negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, molti medici si sono dimessi o hanno chiesto di essere trasferiti dai pronto soccorso per via di turni estenuanti, stipendi poco competitivi e rischio di aggressioni. Per tutte queste ragioni sono sempre meno gli specializzandi che scelgono l’emergenza-urgenza, e le direzioni sanitarie faticano a trovare personale.

Alcuni ospedali stanno sperimentando accorgimenti per gestire meglio i pazienti, sgravare un po’ il lavoro dei medici e in definitiva ridurre le attese. Una delle possibili soluzioni è ricorrere di più alle Osservazioni Brevi Intensive (OBI), aree intermedie – non un ricovero, ma nemmeno un corridoio – dove i pazienti vengono tenuti d’occhio fino a 48 ore. Un altro modo è rendere più veloci le procedure di ricovero.

Ancora più decisiva sarebbe l’entrata in funzione delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità, in costruzione con i soldi del PNRR, il piano di riforme e investimenti finanziato con fondi europei. Molto dipenderà però da quali servizi offriranno alle persone: da una ricognizione fatta da AGENAS con tutte le aziende sanitarie italiane è emerso che delle 660 case di comunità già aperte solo 46 forniscono tutti i servizi sanitari previsti. Potrebbe aiutare anche la telemedicina, cioè le visite a distanza, ma per ora in Italia sono state fatte sperimentazioni solo su piccola scala e soltanto in alcune regioni.