Cosa c’è dietro al rinvio del decreto per inviare armi all’Ucraina
Le solite lamentele della Lega, certo, ma non solo

Martedì mattina la presidenza del Consiglio ha inviato ai vari ministeri l’ordine del giorno del cosiddetto pre-consiglio previsto per l’indomani, cioè della riunione nella quale i tecnici predispongono tutto il necessario per lo svolgimento del Consiglio dei ministri, fissato per giovedì. Al punto 2 della convocazione c’era questo: «Schema di decreto-legge: disposizioni urgenti per la proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina».
Si tratta del decreto con cui ogni anno, quasi sempre a dicembre, dal 2022 il governo italiano rinnova la misura che consente di inviare armi all’esercito ucraino. L’inserimento di quell’impegno nell’ordine del giorno ha sorpreso alcuni ministri, tra cui Matteo Salvini, che non era al corrente della cosa: il leader della Lega ha chiesto chiarimenti ad altri colleghi di governo e dopo qualche ora, in una nuova convocazione del pre-consiglio, il decreto-legge sull’Ucraina era stato rimosso. Giovedì, dunque, il Consiglio dei ministri non lo discuterà.
Le ragioni di questo ripensamento sono varie, e non tutte chiarissime. Sicuramente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni vuole evitare che si aggravino le tensioni politiche interne alla maggioranza, dove la Lega si mostra da tempo insofferente nei confronti del rinnovo del sostegno militare all’Ucraina (anche perché ha esponenti che soprattutto in passato sono stati apertamente filorussi, a partire dallo stesso Salvini, e verosimilmente lo è anche una quota del suo elettorato). Ma nel rinvio del decreto hanno avuto un ruolo importante anche questioni più tecniche, legate alle procedure e ai tempi di approvazione del provvedimento, e lo scarso coordinamento tra il ministero della Difesa e i collaboratori di Meloni.
Il decreto di cui si parla ha un funzionamento un po’ peculiare. Non serve a stabilire quali e quante armi inviare all’Ucraina, ma è piuttosto una sorta di base legale che dà la possibilità al governo di disporre di volta in volta nuove forniture nell’anno che seguirà. Funziona così fin dall’inizio della guerra: il 25 febbraio del 2022, subito dopo l’invasione da parte della Russia, il governo di Mario Draghi approvò un decreto-legge che autorizzava il governo a inviare armi all’Ucraina per tutto l’anno. Il 2 dicembre di quell’anno il governo di Meloni, nel frattempo entrato in carica, prorogò per tutto il 2023 la fornitura con un nuovo decreto, e così via.
Ciò che poi il governo effettivamente fornisce all’Ucraina non è noto: di volta in volta, con specifici decreti, vengono disposti i vari “pacchetti”, come si chiamano in gergo, con armi, munizioni, macchinari, e il ministro della Difesa ne rivela l’effettivo contenuto solo al COPASIR, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, le cui sedute sono segrete.

Il ministro della Difesa Guido Crosetto alla Camera, il 12 novembre 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Già nel 2023 ci furono dei problemi, però, per certi versi analoghi a quelli attuali. Il ministero della Difesa aveva predisposto il decreto per la proroga dell’invio di armi già da fine novembre. Tra i consiglieri di Meloni ci fu però chi ipotizzò di non riproporre un decreto-legge specificamente pensato per l’Ucraina, ma di inserire la proroga per l’invio di armi nel più generale decreto “Milleproroghe”, quello con cui periodicamente, e quasi sempre a fine anno, i governi prolungano la durata di misure in scadenza. Questo avrebbe depotenziato sul piano politico la decisione: il parlamento non sarebbe stato chiamato a discutere esattamente della questione ucraina, che avrebbe dunque occupato meno spazio sui giornali e generato meno polemiche.
L’obiettivo era il solito: evitare tensioni nella maggioranza, soprattutto per l’opposizione più o meno esplicita della Lega. Alla fine però si rinunciò a questo stratagemma, anche perché l’ipotesi venne ritenuta poco praticabile dallo stesso ministro della Difesa, Guido Crosetto, e anche dal Quirinale. E dunque, seppur con qualche affanno, il 19 dicembre il Consiglio dei ministri approvò il decreto che estendeva a tutto il 2024 il sostegno militare all’Ucraina. Lo scorso anno, dopo le consuete inconcludenti polemiche da parte della Lega, tutto si risolse il 23 dicembre.
Stavolta il ministero della Difesa ha provato ad anticipare i tempi. Un po’ perché era nell’interesse di Crosetto provare a dare un segnale politico e diplomatico: in un momento di grande difficoltà per l’Ucraina, e mentre tanti paesi europei si stanno adoperando attivamente per ribadire il proprio sostegno militare a Zelensky, avrebbe avuto un certo valore rinnovare il provvedimento il prima possibile. Un po’, più banalmente, perché i ministeri tendono a inviare a Palazzo Chigi i provvedimenti di loro competenza non appena li ritengono pronti, lasciando che sia poi la presidenza del Consiglio a valutare l’opportunità di definire i tempi per la loro definitiva approvazione. E questo genera spesso incomprensioni.
È un po’ quello che è successo anche nelle scorse ore. Meloni alla fine ha deciso di rimandare la discussione del decreto a un successivo Consiglio dei ministri, comunque prima della fine dell’anno. Così facendo ha in parte accolto alcune delle obiezioni mosse dalla Lega, in base alle quali è saggio attendere l’esito dei colloqui e dei negoziati in corso da settimane tra l’amministrazione di Donald Trump, il governo russo e quello ucraino.
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Inoltre, in Fratelli d’Italia non nascondono che le inchieste sulla corruzione che hanno coinvolto importanti esponenti del governo di Zelensky hanno generato un certo imbarazzo: e dunque si spera che, lasciando passare ancora una settimana o due, il clamore su questi casi giudiziari possa diminuire, così da evitare le critiche pretestuose di chi, come la Lega, sostiene che fornire nuovo sostegno all’Ucraina significa anche alimentare la corruzione.
Per far capire il tenore delle dichiarazioni di Salvini al riguardo, dieci giorni fa alla festa della Lega lombarda aveva detto: «Se un pensionato o un disoccupato di Brescia o di Frosinone deve col suo stipendio e la sua pensione contribuire a mandare dei soldi in Ucraina, e invece di proteggere i bambini a questi si pagano le mignotte e le ville all’estero, io non ci sto».
C’è infine anche una preoccupazione più banalmente procedurale. Un decreto-legge deve essere convertito in legge dal parlamento entro 60 giorni dalla sua approvazione in Consiglio dei ministri. Con il Senato impegnato quasi esclusivamente a discutere la legge di bilancio e la Camera, già oberata, che sarà poi chiamata a votarla a sua volta nell’ultima settimana dell’anno, approvare il decreto il 4 dicembre significherebbe dover provvedere alla conversione in legge al rientro dalla pausa natalizia in gran fretta.
D’altra parte al momento non c’è grande urgenza: il decreto che dispone il dodicesimo “pacchetto” di aiuti è stato approvato il 14 novembre scorso. Finché non arriverà il tredicesimo, verosimilmente tra almeno 4 o 5 mesi – visto che l’undicesimo era stato approvato nell’aprile scorso – formalmente non ci sarà bisogno di una proroga in vigore.



