Nicola Pietrangeli litigò con tutti, per la Coppa Davis in Cile
Con chi voleva boicottare la finale nel paese governato da Pinochet, ma anche con i suoi giocatori: prima, durante e dopo il dicembre del 1976

Prima di Jannik Sinner, il più grande successo del tennis italiano fu la vittoria della Coppa Davis del 1976. Ai tempi il trofeo contava molto più di oggi e l’Italia lo vinse allora per la prima volta, che restò l’unica fino al 2023. Nicola Pietrangeli, morto lunedì a 92 anni, era capitano-non giocatore di quella squadra. Visse il ruolo da protagonista, con molte polemiche prima, durante e dopo quella vittoria, ottenuta in un contesto politico molto particolare, il Cile della dittatura militare di Augusto Pinochet.
In Coppa Davis, principale torneo maschile di tennis per nazionali, il ruolo del capitano-non giocatore è quello di un selezionatore e allenatore. Pietrangeli guidò la squadra pochi anni dopo essersi ritirato, forte del suo passato di giocatore italiano più vincente di sempre all’epoca, e si scontrò con altre personalità forti di quella squadra, composta da Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Antonio Zugarelli.
A decenni di distanza i protagonisti di allora avevano ancora versioni molto discordanti sul ruolo di Pietrangeli in quella vittoria, evidenziate recentemente nella docuserie di Domenico Procacci Una squadra. I giocatori di fatto dicevano di aver vinto quasi nonostante Pietrangeli, mentre lui ha sempre sostenuto di aver avuto un ruolo centrale nell’unire un gruppo diviso e nel rendere possibili le vittorie in campo. Pietrangeli fu senza dubbio protagonista della fase che precedette la finale in Cile, quando in Italia per mesi si animò un lungo dibattito sull’opportunità di giocare in un paese governato da una dittatura violenta. Partecipò a molti programmi televisivi e concesse molte interviste, diventando il principale oppositore di ogni ipotesi di boicottaggio.
Pietrangeli era diventato capitano dell’Italia di Davis proprio nel 1976, a marzo. «L’anno prima erano usciti al primo turno» avrebbe ricordato spesso in seguito. La formula del torneo prevedeva una prima fase di partite a eliminazione diretta fra squadre europee, poi semifinali e finali con nazionali da altri continenti. Ogni sfida si giocava su cinque partite, con due singolaristi che giocavano due partite ciascuno e una partita di doppio.
L’Italia quell’anno era forte. Adriano Panatta giocò nel 1976 la sua miglior stagione, vincendo gli Internazionali d’Italia a Roma e il Roland Garros a Parigi, uno dei quattro tornei del Grande Slam. Barazzutti era fra i migliori 25 tennisti al mondo e in Coppa Davis era spesso molto efficace. Bertolucci aveva un grande feeling con Panatta, con cui componeva un coppia di doppio molto forte. Zugarelli era una riserva affidabile, che contribuì con vittorie importanti quando fu utilizzato (come contro la Gran Bretagna a Wimbledon).

Pietrangeli e Panatta durante le semifinali con l’Australia a Roma, il 24 settembre 1976 (ANSA)
I quattro però erano molto diversi caratterialmente e secondo Pietrangeli la squadra era divisa in due, da una parte Panatta e Bertolucci, dall’altra Barazzutti e Zugarelli: «Mangiavano, si allenavano, correvano per proprio conto. Panatta diceva di Barazzutti cose tremende». Pietrangeli disse di aver avuto molti meriti nel far sì che potessero coesistere ed esprimere al meglio le loro qualità. Era un personaggio molto ingombrante nel mondo del tennis: aveva vinto più di tutti e lo faceva notare anche alle nuove generazioni e ai giocatori che doveva guidare. Aveva un carattere piuttosto difficile, che lo portava facilmente al litigio. Le partite di Davis al tempo prevedevano lunghe preparazioni e una fase di allenamenti e convivenza forzata, i cosiddetti “ritiri”: i motivi di attrito furono numerosi.
L’Italia batté Polonia, Jugoslavia, Svezia e vinse la finale europea contro la Gran Bretagna prima della semifinale con l’Australia, forse il principale ostacolo in quella edizione, superata col punteggio di 3 partite a 2. L’altra semifinale non si era giocata: l’Unione Sovietica si era rifiutata di andare in Cile, dove tre anni prima Pinochet aveva rovesciato con un colpo di stato il governo eletto del presidente Salvador Allende, suicidatosi nel palazzo presidenziale sotto i bombardamenti dell’aviazione militare.
La semifinale si giocò a settembre, e la finale era prevista a dicembre in Cile (la regola prevedeva l’alternanza delle sedi e l’ultimo incontro fra le due nazionali era stato giocato nel 1960 in Italia): per tre mesi l’argomento fu oggetto di discussione. L’Italia aveva ospitato molti esuli cileni dopo il colpo di stato e la successiva violenta repressione degli avversari politici da parte del regime. La questione era molto sentita e i partiti della sinistra erano per il boicottaggio. Ci furono manifestazioni e serate di sensibilizzazione: «Non si giocano volée con il boia Pinochet» fu uno slogan di successo.
Pietrangeli, che aveva perso le due precedenti finali da giocatore (1960 e 1961) e non voleva perdere questa occasione, divenne il volto onnipresente contro il boicottaggio. Si trovò a discutere in molti programmi televisivi con personaggi politici come il comunista Gian Carlo Pajetta (allora tali commistioni erano meno frequenti di oggi), a dibattere con i musicisti esuli cileni Inti-Illimani, a criticare il cantante Domenico Modugno che aveva scritto una ballata in favore del boicottaggio. Rivolgendosi al presidente del Consiglio Giulio Andreotti disse: «Per non farmi andare in Cile deve ritirarmi il passaporto».

Pietrangeli con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e la coppa Davis un anno dopo, nel 1977 (ANSA)
Il governo a guida democristiana rinviò a lungo la decisione, il CONI non si espresse, la federazione del tennis viveva un momento di cambio al vertice: nessuno insomma prendeva una decisione definitiva, finché di fatto la risolutezza di Pietrangeli e qualche dubbio nella stessa sinistra (non si voleva permettere al regime di Pinochet di approfittare della vittoria, seppur ottenuta senza giocare) portarono alla decisione di partecipare alla finale. Tutti a posteriori riconobbero il ruolo di Pietrangeli nel far sì che l’Italia giocasse quella finale; al tempo il capitano ricevette anche insulti e qualche minaccia. Ha sempre sostenuto che la sua fosse una battaglia «al di fuori della politica», anche se nelle molte interviste dei decenni successivi ha talvolta ridimensionato la gravità del colpo di stato cileno o espresso dubbi sulla legittimità del governo di Allende. Disse anche di «non aver mai votato in vita sua», ma le sue convinzioni politiche di destra erano piuttosto note.
In Cile l’Italia vinse tutto sommato senza troppi problemi. Si giocava in un impianto di fronte allo Stadio Nazionale di Santiago, che nei giorni del colpo di stato i militari avevano trasformato in un enorme campo di concentramento e dove vennero torturate e interrogate oltre 40mila persone, molte delle quali da lì non furono più trovate. Barazzutti e Panatta vinsero i primi due singolari, Panatta e Bertolucci aggiunsero la terza vittoria decisiva nel doppio, in una partita in seguito ricordata come quella delle magliette rosse. Panatta propose al compagno di indossare nei primi set del loro incontro due magliette rosse, come il colore dei fazzoletti che le donne cilene usavano per denunciare la scomparsa di padri, mariti e figli per mano del regime. Le televisioni allora erano in bianco e nero, la stampa italiana seguì poco quella finale (proprio per le polemiche della vigilia) e delle magliette rosse si accorsero in pochi. La cosa assunse importanza in seguito, e Pietrangeli ha sempre cercato di sminuirla, sostenendo che fosse stata una scelta casuale nobilitata a posteriori.
La sera prima di quella finale ci fu anche una lite fra Pietrangeli e il responsabile tecnico della nazionale Mario Belardinelli: quest’ultimo si arrabbiò, si mosse di scatto, finì contro una vetrata e dovette passare dall’ospedale. L’episodio è spesso citato per ricordare come i rapporti con Pietrangeli fossero difficili. Ha scritto martedì Panatta sul Corriere della Sera: «Era uno, Nicola, che diceva sempre ciò che pensava, solo che gli uscivano frasi più simili a epitaffi, e in tanti s’incazzavano».
La squadra tornò in Italia accolta con freddezza, come disse Pietrangeli: «Nonostante il successo al ritorno ci accolsero a insulti: dovemmo scappare come ladri da un’uscita secondaria». Lui comunque si ritagliò un ruolo da assoluto protagonista, anche a discapito dei giocatori: si prese la coppa, ci fece servizi fotografici, alcuni mesi dopo firmò un contratto di sponsorizzazione.

Nicola Pietrangeli, Adriano Panatta e Paolo Bertolucci prima della partita di doppio in Cile nel 1976 (Tonelli/FARABOLAFOTO)
L’anno successivo la squadra tornò in finale di Davis, ma stavolta perse 3-1 con l’Australia: le tensioni si accumularono e i rapporti fra i giocatori e Pietrangeli diventarono molto difficili, tanto che la squadra chiese ai dirigenti federali di esonerarlo. Lui ha raccontato negli anni più volte il momento in cui lo convocarono per togliergli l’incarico, definendolo un «processo staliniano». «Mi convocano al Jolly Hotel di Firenze. Un plotone d’esecuzione: il presidente federale Galgani, Belardinelli, Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli. Tutti zitti. “Allora, che c’è?”. Comincia Bertolucci: Nicola, noi non proviamo più per te quello che provavamo prima…».
Pietrangeli se la prese soprattutto con Panatta, quello a cui era legato dai maggiori rapporti di amicizia, proseguiti fino agli ultimi giorni, seppur fra ricorrenti polemiche e accuse di tradimento. Negli ultimi anni la sua vena polemica e un certo egocentrismo lo hanno spesso messo nel ruolo del “cattivo” in discussioni e ricostruzioni storiche, facendo dimenticare le vittorie in campo. È avvenuto anche nei racconti di quella finale, che il successo della serie Una squadra ha reso nuovamente popolare.



