Frutta e verdura italiana sottovalutata, e dove trovarla
Una lista assolutamente NON ESAUSTIVA di certi prodotti famosissimi nel posto in cui vengono coltivati e quasi sconosciuti altrove

In Italia esistono 128 verdure, frutti, erbe e cereali protetti con i marchi europei DOP e IGP, e almeno altrettanti prodotti segnalati dall’associazione Slow Food come “presidi”, cioè coltivazioni da proteggere. Fra i due insiemi ci sono pochissime sovrapposizioni: significa che soltanto in Italia ci sono quasi trecento prodotti vegetali considerati di alto livello, o almeno riconosciuti come tali (a volte con una certa enfasi promozionale).
In pochi però raggiungono la notorietà di quelli più celebri, come la cipolla-rossa-di-Tropea o la mela-della-Val-di-Non. Ne esistono decine famosissime nel raggio di pochi chilometri dalla zona in cui sono coltivate e raccolte, e sconosciute altrove. Abbiamo messo insieme una lista parziale (che potete completare nei commenti, se ritenete) con alcuni frutti e verdure che appartengono a quest’ultima categoria.
Nordovest
Ramassin
Sono delle prugne così piccole che un occhio inesperto potrebbe scambiarle per acini d’uva. Sono tipiche del Piemonte, ma la loro storia ebbe inizio in Siria: arrivarono nelle terre piemontesi almeno mille anni fa, anche se non c’è molto consenso su quando, esattamente. Sono noti anche come darmasin, dramassin e dalmassin, probabilmente per assonanza con la capitale siriana Damasco, altra traccia della loro origine. Vengono coltivate nel Piemonte meridionale e in alcune zone del torinese. Sono dolcissime e con una polpa molto morbida: vanno mangiate appena raccolte, nel pieno dell’estate, perché maturano molto molto velocemente.
Mais nero spinoso
Come si intuisce dal nome è un tipo di mais con chicchi molto scuri, di un bruno-vinato. Si coltiva nei territori di Piancogno ed Esine, due piccoli comuni della Val Camonica, in provincia di Brescia, in cui è arrivato nell’Ottocento direttamente dalle coltivazioni in alta quota del Sudamerica. La pianta supera i due metri di altezza, e a differenza del mais comune contiene sempre e solo un’unica pannocchia: non può essere sfruttata intensivamente, insomma, e per questo a lungo ha rischiato di sparire.
Nel 2015 se n’è interessata l’Università della Montagna di Edolo, che insieme ai due comuni è riuscita a fare inserire il mais nero spinoso in uno studio delle antiche varietà lombarde da preservare. È stata fondata anche un’associazione, che distribuisce gratis i semi ai produttori locali. Si raccoglie tra fine settembre e inizio ottobre, e si usa principalmente per ottenere una farina da polenta. Ma in Val Camonica ci si fanno anche biscotti, cracker salati, panini e grissini.
Zucchina trombetta
La prima cosa da specificare è che non è propriamente una zucchina: oggi tutti la chiamano così perché ci somiglia per sapore e uso in cucina, ma in dialetto ligure la si definisce più correttamente sûcca, perché di fatto è una parente stretta della zucca. È tipica della Riviera ligure di Ponente, e si riconosce perché rispetto alla solita zucchina ha una forma più arzigogolata (simile, appunto, a una trombetta). Ha un sapore dolce e delicato che permette abbinamenti riusciti col pesce – anche per questo è così diffusa in Liguria – e una polpa compatta e senza semi, dato che si trovano tutti nell’estremità. Qualche chef ci prepara anche una specie di guacamole. Si semina in primavera e si raccoglie fino a novembre. È una rampicante: in certi orti, curata adeguatamente, può arrivare a 3 o 4 metri di altezza.

(Il Post)
Chinotto di Savona
È un agrume dal sapore amaro, che non c’entra molto con quello dell’omonima bevanda gassata, che invece è dolciastro. Viene coltivato soltanto nella costa ligure fra Varazze e Pietra Ligure, dove la presenza del chinotto è testimoniata già dal XVI secolo: la leggenda dice che fu un marinaio di Savona a importarlo dalla Cina. Già nell’Ottocento si era sviluppata a Savona un’importante industria di canditura del chinotto. Negli anni Venti del ‘900, all’apice della produzione, ci fu un’improvvisa crisi del settore, probabilmente dovuta a delle gelate. Oggi è stato recuperato e viene usato anche per produrre l’amaro Barzotto – prodotto con basilico, orzo e chinotto, da cui il nome – che da qualche tempo va di moda e vince premi internazionali.
Asparago bianco di Cantello IGP
Viene coltivato da una manciata di aziende agricole in un paesino vicino al confine con la Svizzera, e si raccoglie da marzo a giugno. Si distingue da quelli a cui pensiamo abitualmente perché il turione, cioè il germoglio della pianta – il pezzo che tutti chiamiamo asparago – è bianco. A volte ha persino la punta rosa. Ha questo colore perché viene raccolto presto, quindi durante la crescita viene esposto di meno alla luce solare, cioè quella che contribuisce a rendere verdi foglie e fusti. A Cantello la coltivazione degli asparagi è documentata dal 1831. Già undici anni dopo i contadini del posto ne offrirono un carico alla parrocchia per contribuire alla costruzione del campanile. Rispetto al solito asparago ha un sapore più dolce: quando è fresco lo si può mangiare anche crudo.

(ANSA)
La Cipolla Rossa di Breme
È una specie gigante di cipolla: pesa in media 800 grammi, e rispetto a quelle un po’ banali che si trovano in tutti i supermercati è più dolce, croccante e digeribile. Cresce nei terreni sabbiosi e golenali sulla sponda pavese del Po, che la gonfiano d’acqua. La coltivazione – tramandata dai monaci dell’Abbazia di Novalesa fin dal 906 d.C. – dura due anni dalla messa a dimora alla raccolta, è fatta a mano e senza diserbanti. A giugno alla Sagra della Rossa di Breme (provincia di Pavia) si può assaggiare un intero menù a base di cipolla locale, dall’antipasto al gelato. Nel 2018 i suoi semi sono stati depositati allo Svalbard Global Seed Vault, il posto dove conserviamo i semi di tutto il mondo. I cambiamenti climatici hanno aumentato le infezioni e ridotto la sua produzione: ora l’università di Pavia sta studiando come irrobustirne il seme e il bulbo.

(Il Post)
Pesche di Canale
Ne esistono decine di varietà, molte delle quali autoctone delle colline cuneesi del Roero (di cui la pesca gradisce il suolo povero). Alcuni hanno nomi convenzionali: le “bianche”, le “gialle”. Altre si legano alla storia italiana fra Ottocento e Novecento, cioè il periodo in cui Canale si arricchì grazie alla coltivazione e al commercio delle pesche in tutta Italia: la pesca “Badoglio”, la “De Gasperi”, la “Impero” e la “Repubblica” – battezzate così dagli agricoltori che volevano esprimere il proprio orientamento politico. Si raccoglie da fine giugno a fine ottobre, a seconda di quanto è precoce la varietà: la prima è la San Giovanni (che si festeggia il 24 giugno), l’ultima è la Fior di Novembre (giustamente). Oltre a essere gustose da crude, sono usate per preparare le pesche ripiene al forno, una ricetta della tradizione contadina piemontese con amaretti e cacao.

(Marco Monchiero)
Nordest
Broccolo fiolaro di Creazzo
Si chiama così perché si coltiva soprattutto a Creazzo, vicino a Vicenza, e perché a differenza dei classici broccoli ha tanti teneri germogli che spuntano intorno al fusto centrale. In dialetto questi germogli sono conosciuti come fioi, ovvero figli, da cui fiolaro. Cresce tra l’autunno e l’inverno, quando l’orto riposa. Per difendersi dal freddo, infatti, il broccolo fiolaro limita la presenza di acqua nei tessuti e concentra sali e zuccheri nei germogli, rendendoli saporiti. È stato riscoperto solo negli ultimi vent’anni soprattutto grazie ai ristoranti che lo propongono nel risotto o insieme a uno spaghettone – i bigoli – con la salsiccia locale, cioè la luganega.

(Il Post)
Sclopit
È un’erba spontanea che si raccoglie in primavera prima della fioritura, quando i germogli sono ancora teneri; è molto diffusa e in realtà si trova ovunque, nei campi e ai margini delle strade. Il nome italiano è Silene rigonfia perché, si racconta, i suoi fiori tondeggianti ricordano la pancia di Sileno, il maestro di Dioniso, il dio greco del vino.
Ogni regione la chiama a modo suo: in Emilia-Romagna si dicono strigoli e in Friuli Venezia Giulia sclopit, perché i suoi fiori scoppiettano se schiacciati fra le dita. Sono i due posti in Italia dove lo si mangia di più: nel primo con le tagliatelle e nei ravioli, nel secondo in minestre, frittate e risotti, oltre che saltato in padella. Da cotto lo sclopit ricorda gli spinaci, ma il sapore è più pungente. Per averne abbastanza serve pazienza: da ogni pianta si raccolgono 3-4 foglioline, che durante la cottura si restringono molto. Quindi magari da una borsa strapiena si ottiene un tegame scarso di sclopit. Alcune aziende lo coltivano ma i cultori sostengono che quello selvatico sia più saporito.

(Il Post)
Carciofo violetto di Sant’Erasmo
Sant’Erasmo è l’isola con più coltivazioni della laguna di Venezia: già nel Cinquecento forniva alla città «copia di herbaggi, e di frutti, in molta abbondanza e perfetti», scriveva l’architetto Jacopo Sansovino. Il suo prodotto più riconoscibile è il carciofo violetto. È molto tenero ma anche carnoso: in particolare il suo primo germoglio, la cosiddetta castraùra, che si comincia a raccogliere a inizio aprile. Si mangia crudo, ma anche fritto o cotto in padella col coperchio, con aglio e cipolla. Cresce anche in altre isole della laguna (le Vignole, Lio Piccolo), grazie alla particolare salinità del terreno, che i carciofi apprezzano. Si dice fu la comunità ebraica a introdurlo a Venezia; oggi ci sono 13 produttori che lo coltivano, perlopiù anziani.
Patata di Rotzo
Il nome è legato al luogo in cui viene coltivata, il piccolo comune di Rotzo: uno dei 7 che formano l’altopiano di Asiago. È considerata una patata di montagna perché si pianta intorno ai 1.000 metri: il freddo la mantiene al riparo dalle malattie, mentre il terreno – in passato era il letto di un ghiacciaio – è ricco di nutrienti. Si usa per molti piatti ma è particolarmente consigliata per gli gnocchi, che se fatti con questa patata hanno un minor rischio di sfaldarsi durante la cottura perché la notevole quantità di amido li rende più resistenti. La sua coltivazione a Rotzo risale al diciottesimo secolo, ne esistono 5 varietà diverse – fra cui la Monalisa, con un certo understatement – e il colore della buccia è in genere bianco o rosso.
Centro
Aglione della Val di Chiana
È una specie di aglio della zona tra Arezzo e Siena, in Toscana. Si pianta in autunno e si raccoglie in primavera ed è -one perché è molto più grande dell’aglio: può arrivare anche a pesare più di dieci volte tanto. Esistono varietà di aglione simili per dimensioni e sapore, ma quello della Val di Chiana si produce solo qui, e in piccole quantità. Fino a qualche anno fa era raro trovarlo fuori dalla Toscana, ma ora sta diventando sempre più popolare. È infatti speciale per il suo sapore dolce e delicato, apprezzato soprattutto da chi non digerisce l’aglio normale o non tollera di avere l’alito impestato del suo sapore. Il piatto per cui è più famoso sono i pici all’aglione: una pasta fresca e lunga tipica della zona di Siena conditi con un sugo al pomodoro in cui c’è moooooolto aglione.

(pagina Instagram dell’Associazione per la Tutela e la Valorizzazione dell’Aglione della Valdichiana)
Zucchina lunga fiorentina (o romanesca?)
Si coltiva principalmente nell’entroterra della Toscana e nel nord del Lazio. Si distingue per le scanalature longitudinali, una superficie pelosa, un grande fiore e una polpa più soda rispetto alle zucchine scure che si trovano al Nord. Alcuni sostengono che la zucchina lunga fiorentina e la zucchina romanesca siano due verdure distinte, e i semi vengono venduti come varietà diverse, per altri è la stessa identica zucchina ma raccolta in momenti diversi. Sicuramente i piatti in cui vengono usate non sono gli stessi: a Roma per esempio si usa per fare la carbonara di zucchine, mentre a Firenze viene mangiata anche cruda, tagliata fine in carpaccio, con olio, limone e parmigiano. Il fiore viene spesso fritto: in Toscana vuoto e impanato con farina e uova, mentre in Lazio ripieno di mozzarella e alici e in pastella.

(Il Post)
Paccasassi
È il nome dialettale con cui nella zona di Ancona viene chiamato il finocchio selvatico di mare: lo si definisce così perché cresce fra le fessure delle rocce (quindi “spacca i sassi”) sulle coste aspre attorno al monte Conero. In realtà è una pianta che si trova abbastanza facilmente, con nomi diversi, lungo le coste rocciose e calcaree di varie parti d’Italia. In passato era molto apprezzata dai marinai perché essendo ricca di vitamina C aiutava a prevenire lo scorbuto, ma la raccolta eccessiva la portò a scomparire da molte zone. Per questo in alcuni luoghi, fra cui il parco regionale del Conero, è una specie protetta e la sua raccolta è vietata.
Ultimamente sono tornati piuttosto di moda e c’è anche un’azienda che li coltiva e vende. Principalmente però vengono raccolti a mano (fuori dalle zone protette) da chi li sa riconoscere. Li si mangia dopo averli marinati e bolliti nell’aceto, e poi messi sott’olio: accompagnano pesce, salumi, paste e moscioli (cioè le cozze) di Portonovo.
Peperoni sciuscilloni
Sembrano peperoncini, ma solo a chi non li conosce. Sono coltivati nel Vallo di Diano, nel sud della Campania. Hanno una forma lunga e affusolata, simile alle carrube (in dialetto sciuscelle). Si raccolgono in estate, poi vengono legati a grappolo, essiccati e tritati per farne una polvere non piccante, utilizzata per colorare le carni dei salumi e per condire la pasta e ceci. Oppure quando si sono totalmente asciugati li si usa interi come peperoni «cruschi», cioè croccanti: ultimamente vanno piuttosto di moda in cucina, sbriciolati sulla pasta, cucinati con il baccalà o combinati con i broccoli friarielli.

(Il Post)
Sud e Isole
Merendella
È il frutto estivo per eccellenza che indica l’arrivo dell’estate in Calabria. Supermercati, fruttivendoli e venditori ambulanti la definiscono entusiasticamente “primizia della Calabria”. È un frutto piccolo, succoso, zuccherino, dalla buccia liscia e dal colore verde o rosso, dal gusto a metà strada fra la pesca classica e la nettarina. La merendella è quasi sconosciuta fuori dalla Calabria: lo si deve al fatto che è molto delicata da trasportare. L’ideale sarebbe mangiarla fredda: è il tipico frutto che si porta al mare nelle borse frigo, da offrire ai vicini di ombrellone. Oggi se ne coltivano di più rispetto al passato, dice Alberto Carpino, responsabile dei Presidi Slow Food per la Calabria, nonostante per crescere adeguatamente abbia bisogno di molta acqua: un problema che sarà sempre più pressante per via del cambiamento climatico.

(Il Post)
Pomodoro del piennolo DOP
In teoria il pomodoro è una coltivazione estiva, che bisognerebbe raccogliere entro agosto-settembre: quelli che troviamo a dicembre nei supermercati vengono cresciuti in serra, con costi economici enormi e un notevole impatto ambientale legati all’energia necessaria per imitare il clima estivo. In Italia c’è un solo pomodoro che rimane “di stagione” anche in inverno: quello del piennolo. È un tipo di pomodorino che si coltiva sul Vesuvio e si raccoglie quando è ancora un po’ acerbo, in estate. Poi lo si lascia maturare in ambienti ventilati attaccato a una treccia, chiamata piennolo, “pendolo”, per la sua tipica oscillazione quando è carico di pomodori. Nel corso dei mesi il pomodoro si asciuga un po’, cosa che rende il suo sapore più concentrato. I napoletani sostengono che una volta appeso possa durare anche 7-8 mesi: infatti lo mangiano (e lo regalano) anche a Natale.
Cetriolo carosello
È tipico della Puglia, e in realtà non è un cetriolo bensì un melone raccolto immaturo, croccante e molto digeribile, privo dell’amarognolo dei cetrioli comuni. Ha una buccia sottile verde chiaro, spesso striata e una forma leggermente allungata. A volte i caroselli sono confusi con i barattieri, che sono però più tondi e compatti e hanno l’aspetto di un piccolo melone o di un avocado. Ogni zona – e spesso ogni agricoltore – custodisce la propria varietà: dal Carosello barese al Mezzo lungo di Polignano, passando dal Tondo di Manduria al Bianco leccese. Si mangiano crudi o con un pizzico di sale per rinfrescarsi nelle giornate più torride; in Puglia si servono anche con il ghiaccio e sono usati per aprire il pasto o pulire il palato tra una portata e l’altra. Esattamente l’uso che si fa dei cetrioli in paesi come la Palestina, la Siria e il Libano.
Mela annurca IGP
È tipica della Campania e ha origini molto antiche: da queste parti è attestata già in epoca romana. È una mela piccola, rotonda e leggermente appiattita, con polpa bianca, compatta e croccante. Si raccoglie tra fine settembre e inizio ottobre, quando è ancora acerba. Per completare la maturazione viene messa sui melai, cioè porzioni di terreno ricoperte di trucioli e paglia, dove resta al sole per circa quindici giorni. Qui le mele vengono ruotate a mano per evitare scottature, così da diventare rosse in modo uniforme, e sviluppare un sapore dolciastro. Nella cucina campana è usata sia in ricette salate sia in quelle dolci: succhi, decotti, mousse, liquori come il tradizionale nurchetto. Se ne producono 60.000 tonnellate all’anno (circa un sesto delle mele della Val di Non).

(Il Post)
Pomodoro camone
Nasce in Sardegna, dove la vicinanza al mare, il terreno e la tipologia di coltivazione l’hanno reso un pomodoro molto croccante e con un gusto che mescola acidità, sapidità e dolcezza, in una maniera piuttosto inconfondibile. Viene raccolto tra maggio e ottobre e non esiste un consorzio che gestisce la sua commercializzazione, ma ci sono piccoli produttori che lo coltivano e lo vendono autonomamente. Si riconosce dal colore rosso scuro con striature verdi (ma spesso anche totalmente verde) e si mangia soltanto crudo.
– Leggi anche: Quanto dovremmo pagare un chilo di pomodori?
Tenerumi
Sono le foglie e i germogli più giovani della zucchina lunga siciliana, coltivata soprattutto nella parte orientale dell’isola e in alcune zone della Calabria. Il nome deriva dal dialetto: significa “le parti più tenere”. Si raccolgono tra luglio e settembre e in cucina si usano soprattutto per la pasta con i tenerumi, una minestra leggera con pomodoro, aglio e appunto pezzi della zucchina lunga. In Calabria si chiamano anche caddi o taddi.
Melanzana rossa
Nei paesi del complesso montuoso del Pollino e in particolare della valle del Mercure, tra il nord della Calabria e il sud della Basilicata, in quasi tutti gli orti si trova la melanzana rossa. Si dice sia arrivata dall’Africa subsahariana, importata dai soldati rientrati dalle colonie. È solo una lontana parente della melanzana comune: è piccola e tondeggiante, ha un colore che va dall’arancio con striature verdi al rosso intenso, e somiglia a un pomodoro cuore di bue, tanto che in gergo viene chiamata anche melanzana a pomodoro. Si raccolgono in estate e di solito vengono mangiate fritte in pastella, se fresche, oppure vengono legate in grappoli come si fa per i peperoni e i pomodori, appese ad asciugare e poi messe sott’olio.









