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  • Venerdì 21 novembre 2025

L’ennesima pezza del governo sull’ex ILVA serve solo a prolungare l’agonia

L'idea è continuare a finanziarne la sopravvivenza fino alla vendita: solo che non c'è ancora un compratore

Gli operai dell'ex ILVA di Genova mostrano in corteo uno striscione con la scritta "Che l'inse!", che in dialetto genovese significa "volete che cominci?", un'espressione usata per invitare all'azione, 20 novembre 2025
(ANSA/LUCA ZENNARO)
Gli operai dell'ex ILVA di Genova mostrano in corteo uno striscione con la scritta "Che l'inse!", che in dialetto genovese significa "volete che cominci?", un'espressione usata per invitare all'azione, 20 novembre 2025 (ANSA/LUCA ZENNARO)
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Dopo due giorni di scioperi dei lavoratori, giovedì sera il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge che permette ad Acciaierie d’Italia, il nome attuale dell’ex ILVA di Taranto, di usare 108 milioni di euro di fondi pubblici per proseguire la produzione nei vari stabilimenti, almeno per alcuni mesi. L’idea del governo è tirarla fino a febbraio del 2026, quando in teoria dovrebbe chiudersi la procedura di vendita dell’ex ILVA, un’impresa molto difficile che va avanti da mesi.

È l’ennesimo decreto di questo tipo, cioè per “salvare l’ILVA”, che secondo i sindacati non è affatto risolutivo, soprattutto per quanto riguarda il futuro dei circa ottomila lavoratori attualmente impiegati nei vari stabilimenti.

Con l’annuncio del decreto-legge, comunque, sono state interrotte anche le occupazioni delle fabbriche dell’ex ILVA a Genova, Novi Ligure (Alessandria) e a Taranto. I sindacati avevano indetto inizialmente uno sciopero di 24 ore martedì sera, che poi era stato prolungato fino a venerdì: mercoledì gli addetti dell’ex ILVA di Genova avevano occupato lo stabilimento, poi lo avevano fatto anche quelli di Novi Ligure e giovedì quelli di Taranto, che hanno anche bloccato diverse strade della città. Il presidio di Genova si è concluso giovedì sera, quelli a Taranto e Novi Ligure venerdì.

La protesta dei lavoratori dell’ex ILVA a Taranto, 20 novembre 2025 (ANSA)

Più nel dettaglio, il decreto-legge sblocca 108 milioni di euro da uno dei molti finanziamenti “ponte” stanziati negli anni per evitare di fermare la produzione, da usare appunto per le attività produttive degli impianti. Da quando l’azienda è stata sequestrata nel 2012 e poi messa in amministrazione straordinaria, i governi di varie maggioranze ne hanno emanati 18: questo è il 19esimo.

È questo il motivo per cui l’ex ILVA di Taranto esiste ancora: da anni lo stato finanziario dell’azienda è negativo, perché l’impianto è da tempo sottodimensionato in termini produttivi ma sovradimensionato in termini occupazionali. L’ex ILVA ha insomma enormi problemi di liquidità (pochi soldi in cassa per pagare quel che serve, dai materiali alla manutenzione al personale), e quindi i fondi del governo servono a sopperire temporaneamente ai buchi.

Tra le altre cose il decreto-legge stanzia 20 milioni di euro per la fine del 2025 e il 2026 per integrare fino al 75 per cento il trattamento della cassa integrazione straordinaria, sostenuta finora da Acciaierie d’Italia. Attualmente sono in cassa integrazione 4.500 dipendenti: secondo i piani del governo saliranno prima a 5.700 e poi a 6mila da gennaio. Il piano di aumentare la cassa integrazione era stato reso noto martedì sera: i sindacati l’avevano rifiutato, proclamando poi lo sciopero che ha portato alle occupazioni dei siti siderurgici in questi giorni.

Un momento della manifestazione a Cornigliano degli operai dell’ex ILVA di Genova, 19 novembre 2025 (ANSA/LUCA ZENNARO)

Per i sindacati, che accusano il governo di non avere un vero piano industriale per l’azienda, nemmeno il decreto-legge è sufficiente. Al momento ci sono poche offerte per acquistare l’ex ILVA: secondo il governo la migliore è quella del fondo Bedrock, che però prevede molti licenziamenti, e che quindi è molto impopolare. Secondo i sindacati tutta questa procedura è soltanto un preludio alla chiusura definitiva degli stabilimenti.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) Adolfo Urso nel frattempo ha convocato una riunione per il 28 novembre. Inizialmente all’incontro erano stati invitati solo i rappresentanti dei siti siderurgici del nord Italia, poi dopo molte proteste l’incontro è stato allargato a quelli di Taranto, in due momenti però separati. I sindacati dei metalmeccanici chiedono però un incontro unitario, e non al Mimit ma a Palazzo Chigi, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. «Urso ha fallito, Meloni ne deve prendere atto», ha detto Rocco Palombella, segretario della Uilm, a Repubblica. «La situazione economica e finanziaria dell’ex Ilva è al collasso e il piano di cui si parla non è un piano di rilancio, ma di chiusura, a partire dal primo marzo».

– Leggi anche: La trionfale inconcludenza di Adolfo Urso sull’ex ILVA

Da tempo i sindacati chiedono che l’ex ILVA non venga venduta a un acquirente esterno, ma sia nazionalizzata. È una proposta sostenuta anche da diversi politici locali, tra i quali il candidato presidente alle imminenti elezioni regionali in Puglia Antonio Decaro, che venerdì ha detto che «lo Stato deve entrare nel capitale dell’ILVA, che deve diventare pubblica».

La vendita dell’ex ILVA è però estremamente difficile. Da un lato c’è la necessità di ridurre l’impatto ambientale dello stabilimento, e dall’altro quella appunto di tutelare i lavoratori. Per gli impianti siderurgici dell’ex ILVA, come per molti altri, si parla da tempo di “decarbonizzare”, cioè passare a sistemi di produzione dell’acciaio meno inquinanti di quelli che impiegano carbone: concretamente significa sostituire gli altiforni a carbone con forni elettrici e quindi consumare molta più energia elettrica, ma anche riorganizzare il lavoro e insegnare nuove mansioni a lavoratori e lavoratrici. È quindi possibile che l’ex ILVA venga fortemente ridimensionata dopo un’eventuale vendita, anche se per ora è difficile dire quanto con esattezza, e molto dipenderà da scelte aziendali e del governo.

– Leggi anche: Che fine faranno gli operai dell’ex ILVA di Taranto