Le autorità indipendenti, come il Garante della privacy, non sono poi così indipendenti

I loro dirigenti sono spesso esponenti dei partiti che li scelgono, a cui inevitabilmente rispondono

Agostino Ghiglia, componente del Collegio del Garante della privacy ed esponente di Fratelli d'Italia, a settembre del 2020 (FABIO FRUSTACI/ANSA)
Agostino Ghiglia, componente del Collegio del Garante della privacy ed esponente di Fratelli d'Italia, a settembre del 2020 (FABIO FRUSTACI/ANSA)
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La polemica tra il Garante per la privacy e la trasmissione di Rai 3 Report ha riportato al centro del dibattito un problema che ciclicamente emerge e che però resta sempre irrisolto: l’eccessiva politicizzazione della autorità amministrative indipendenti, le cosiddette authority, o “garanti”, cioè gli organismi che dovrebbero vigilare e regolare alcuni settori dell’economia, della finanza, della politica e della giustizia sulla base di regole chiare e trasparenti, e con atteggiamento imparziale.

Questo almeno in teoria era lo spirito con cui vennero istituite. In Italia se ne discusse a lungo verso la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando i sempre più diffusi casi di clientelismo e corruzione nella politica fecero emergere la necessità di sottrarre ai partiti il potere di controllo diretto su alcuni settori pubblici, e favorire la nascita di un mercato più libero da condizionamenti statali.

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Le prime, nel 1990, furono l’Ufficio del Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria (che dal 1997 si sarebbe chiamata AGCOM, Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), e quella garante della concorrenza e del mercato (AGCM, anche detta Antitrust). Da allora ne sono state create via via una ventina, di minore o maggiore rilevanza. Dopo ormai 35 anni, dunque, si può dire che le authority hanno solo in parte risposto all’esigenza per cui nacquero: hanno certamente garantito un certo grado di trasparenza nella gestione della cosa pubblica e nel rispetto dei diritti dei cittadini connessi; d’altro canto, però, l’obiettivo di renderle davvero indipendenti dal controllo della politica è risultato velleitario.

I partiti hanno infatti continuato a nominare nelle autorità garanti persone di loro fiducia, talvolta scegliendoli da esperti dei vari settori, talvolta direttamente dai loro organigrammi. Insomma, per dirla in modo un po’ grossolano: la politica cacciata dalla porta è poi rientrata dalla finestra.

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Questo è in parte inevitabile. A scegliere i dirigenti delle authority è il governo, attraverso il presidente del Consiglio o i ministri più direttamente coinvolti, oppure il parlamento. Più di rado vengono consultate le amministrazioni locali (regioni, comuni, province). Il presidente della Repubblica è spesso chiamato a convalidare le nomine, ma senza un diretto potere di condizionamento o di veto.

Tutto ciò è anche normale, in teoria: parlamento e governo sono l’espressione della volontà popolare, e dunque indicano dei nomi per quelle autorità su mandato degli elettori. Fatalmente, i vari leader tendono a scegliere persone di cui si fidano, che conoscono, di cui apprezzano le competenze, con cui magari hanno già avuto modo di collaborare.

Dopodiché, però, molto spesso le scelte sono motivate da logiche assai meno virtuose: i partiti, cioè, finiscono con l’usare le authority come posti in cui nominare persone a cui si devono dei favori, colleghi che non sono riusciti a ottenere la rielezione alla Camera o al Senato, vecchi funzionari ormai nella fase finale della loro carriera, ottenendo così di esercitare comunque un controllo su quegli organismi. Questo spiega perché spesso le scelte che queste authority fanno rispondono a logiche politiche molto più che alla semplice, imparziale, trasparente applicazione delle norme.

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, con il presidente dell’AGCOM, Giacomo Lasorella, durante un convegno a Roma, il 6 novembre 2024 (MAURIZIO BRAMBATTI/ANSA)

Vale un po’ per tutte, anche se con diversi gradi di condizionamento dei partiti a seconda del tipo di authority, delle funzioni che queste esercitano e del modo in cui vengono nominati i dirigenti. All’AGCOM, per esempio, l’influenza della politica è da sempre alta: l’autorità si occupa tra l’altro di disciplinare la ripartizione degli spazi televisivi concessi ai vari partiti, del rispetto delle norme sulla par condicio in campagna elettorale, del rapporto tra politica e media, e insomma si capisce perché i partiti abbiano interesse a controllarla rigidamente.

Non è quindi un caso che tra i 4 commissari, votati in numero uguale da Camera e Senato, c’è un ex parlamentare toscano del PD, con una lunga carriera da deputato e un incarico da sottosegretario alla Sviluppo economico, con delega proprio alle telecomunicazioni (Antonello Giacomelli); un ex deputato della Lega, molto vicino a Matteo Salvini e a lungo in servizio a Radio Padania (Massimiliano Capitanio); poi c’è Laura Aria, ex funzionaria del ministero dello Sviluppo economico vicina all’ex ministro grillino Luigi Di Maio, ma gradita anche a Forza Italia; ed Elisa Giomi, una professoressa universitaria promossa dal M5S.

Il presidente è Giacomo Lasorella, a lungo democristiano e poi nel centrosinistra. È stato indicato dall’allora presidente della Camera Roberto Fico, del M5S, che lo aveva conosciuto e apprezzato quando era Vicesegretario generale vicario di Montecitorio, uno dei funzionari più alti in grado e stretto collaboratore dei presidenti della Camera. Non deve sorprendere che il collegio sia in gran parte orientato, almeno formalmente, verso il Movimento 5 Stelle: venne rinnovato tra il 2019 e il 2022, quando appunto quello di Giuseppe Conte era il partito di maggioranza relativa in parlamento.

All’Antitrust, cioè l’autorità garante della concorrenza e del mercato, il presidente è invece Roberto Rustichelli, magistrato di lungo corso che aveva ricoperto incarichi di consigliere e collaboratore con vari ministri nei governi di Silvio Berlusconi. Neppure questo è un caso. Per prassi, i presidenti di Camera e Senato tendono a esprimere un’indicazione molto rilevante sulla scelta dei presidenti delle varie authority. Se Fico aveva suggerito Lasorella per l’AGCOM nella scorsa legislatura, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati di Forza Italia, aveva invece sostenuto la candidatura di Rustichelli a capo dell’AGCM.

Poi nel 2023 il mandato di uno degli altri due commissari dell’authority finì. E Ignazio La Russa, subentrato ad Alberti Casellati, favorì la nomina del giurista Saverio Valentino, figlio di Giuseppe Valentino, esponente storico della destra, più volte parlamentare tra il 1996 e il 2013, attuale presidente della Fondazione Alleanza Nazionale (il partito da cui discende Fratelli d’Italia) e amico personale da molti anni di La Russa.

È anche vero che ci sono requisiti che i candidati devono avere: competenze specifiche, esperienze nel settore. E dunque in certi casi può essere ingiusto ricondurre le ragioni di una certa nomina alla semplice vicinanza politica o addirittura familiare: Alessandra Dal Verme, per esempio, cognata dell’ex presidente del Consiglio del PD Paolo Gentiloni, è stata nominata da Mario Draghi presidente dell’Agenzia del Demanio, nel 2021. La scelta all’epoca fu molto contestata da Fratelli d’Italia, e i giornali di destra la descrissero appunto semplicemente come «la cognata di Gentiloni». Ma in quel ruolo Dal Verme fu poi riconfermata dal governo Meloni, evidentemente in virtù di un ottimo curriculum da manager pubblica e funzionaria del ministero dell’Economia.

Questa di Dal Verme è una vicenda un po’ speculare a quella di Gabriella Alemanno, sorella dell’ex sindaco di Roma Gianni, storico dirigente della destra, pure lei con una lunga carriera di funzionaria al ministero dell’Economia e nominata nel 2023 tra i commissari della Consob, l’autorità che vigila sulla borsa e sui mercati finanziari. L’anno prima era stata inserita nel consiglio di amministrazione di ITA Airways, sempre ovviamente su indicazione di Fratelli d’Italia.

Il presidente della Consob Paolo Savona, a Milano, l’8 giugno 2023 (MATTEO BAZZI/ANSA)

Del resto anche la Consob, che pure dovrebbe essere un’authority molto indipendente vista la delicatezza del ruolo che svolge, finisce spesso per essere oggetto di “lottizzazione”, cioè di quel fenomeno per cui i vari partiti si spartiscono le nomine nelle varie istituzioni.

Il presidente Paolo Savona fu scelto dal primo governo Conte per volere della Lega, nel marzo del 2019, quando era ancora ministro per gli Affari europei, e la cosa generò un certo scandalo perché costituì un precedente e perché arrivò al termine di un’aspra campagna di delegittimazione, tutta mossa da ragioni politiche, condotta dal M5S e dalla Lega contro l’allora presidente della Consob, Mario Nava (del resto, Savona era stato già oggetto di grosse polemiche l’anno precedente, quando venne proposto come ministro dell’Economia e la sua nomina fu rigettata dal presidente della Repubblica, per via delle posizioni euroscettiche di Savona).

Gli altri commissari sono Federico Cornelli, voluto dal centrodestra, Chiara Mosca e Carlo Comporti, entrambi sponsorizzati invece dall’allora consigliere economico di Draghi, Federico Giavazzi.

Anche la composizione del collegio direttivo del Garante della privacy è frutto di spartizione politica. Il presidente Pasquale Stanzione è espressione del PD, così come pure il suo predecessore, Antonello Soro; la vicepresidente, Ginevra Cerrina Feroni, è una costituzionalista fiorentina vicina alla Lega; Agostino Ghiglia, il protagonista delle polemiche con Report, fu un esponente di Alleanza Nazionale prima e di Fratelli d’Italia poi; e Guido Scorza è invece un giurista espresso dal M5S, già collaboratore della ministra per l’innovazione Paola Pisano.