La separazione delle carriere dei magistrati separa anche a destra e a sinistra

Soprattutto nel centrosinistra ci sono esponenti per il no e per il sì: per questioni di merito, ma soprattutto politiche

La segretaria del PD Elly Schlein ospite di Porta a Porta, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sullo schermo, a maggio (Mauro Scrobogna/LaPresse)
La segretaria del PD Elly Schlein ospite di Porta a Porta, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sullo schermo, a maggio (Mauro Scrobogna/LaPresse)
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La prossima primavera si voterà il referendum costituzionale sulla riforma della giustizia voluta dal governo di Giorgia Meloni e approvata giovedì dal parlamento, che prevede tra le altre cose l’introduzione della cosiddetta separazione delle carriere dei magistrati. È una questione di cui si discute da decenni, che da sempre è considerata una battaglia della destra molto divisiva dell’opinione pubblica: per vari motivi in questa occasione è diventata divisiva all’interno della stessa destra e anche della sinistra.

Alcuni politici e giuristi di sinistra che sono d’accordo con lo spirito della riforma e che voteranno a favore vengono criticati da chi sostiene che in questo modo contribuiranno a far vincere un referendum promosso dal governo di destra, peraltro a ridosso delle prossime elezioni politiche, previste nel 2027. A destra invece la dichiarata unità sulle intenzioni di voto nasconde una certa insoddisfazione su alcuni temi e sulla possibilità di “personalizzare” il referendum, cioè sul renderlo non solo un voto sul tema in sé ma in generale sul governo.

Per inquadrare bene la questione prima ci sono alcuni inevitabili tecnicismi (spiegati più nel dettaglio qui). Il punto più saliente della riforma è l’istituzione di carriere nettamente distinte per i magistrati inquirenti, cioè i pubblici ministeri che conducono le indagini, e quelli giudicanti, cioè i giudici che emettono le sentenze. Al momento chi vuole diventare magistrato sostiene un unico concorso pubblico, valido per entrambe le funzioni, e dopo averlo superato decide se fare il pubblico ministero (pm) o il giudice. Può anche decidere di passare dall’una all’altra funzione ma può farlo solo una volta e nei primi nove anni della sua carriera. Questo passaggio viene fatto da una ventina di magistrati all’anno su circa 10mila magistrati in Italia, quindi i casi sono estremamente rari.

Quelli che cambiano sono quasi tutti pm che decidono di andare a fare i giudici, e la convinzione alla base di questa riforma è che separando le carriere si scongiura il rischio che nell’emettere la sentenza il giudice sia in qualche modo condizionato dalla sua attività precedente, finendo così con l’aderire all’impostazione seguita dal pm. La separazione delle carriere servirebbe anche, secondo chi la sostiene, a creare figure più specializzate e a evitare la possibilità che chi abbia in passato condotto indagini come pm su certe faccende o su alcune persone si ritrovi anni dopo a giudicare questioni analoghe, o magari che riguardano gli stessi soggetti e le stesse questioni.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio al Senato, il 29 ottobre 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

A sinistra ci sono posizioni molto contrarie, espresse anche con argomentazioni radicali, che descrivono la riforma come un “attentato” all’indipendenza della magistratura e alla democrazia stessa. È evidentemente una valutazione esagerata, ma rappresenta la linea generale di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, secondo i quali la riforma ha il fine di rendere il pubblico ministero troppo potente, una sorta di «super poliziotto» che finirebbe per rispondere, in modo più o meno diretto, al governo.

Anzi, l’accusa in questo senso è esplicita: le opposizioni dicono che questa separazione delle carriere non è che il preludio a una successiva riforma che porterà i magistrati inquirenti alle dipendenze del ministro della Giustizia, come del resto avviene un po’ in tutti i paesi europei in cui le carriere dei magistrati sono distinte. Sono valutazioni condivise ed espresse per esempio dalla segretaria del PD Elly Schlein e dal leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte.

Alcuni parlamentari dell’opposizione protestano contro l’approvazione della riforma della giustizia in Senato, il 30 ottobre 2025

Allo stesso tempo c’è chi all’opposizione è favorevole alla riforma perché sostiene i meriti della separazione delle carriere: tra questi ci sono i parlamentari di Italia Viva di Matteo Renzi, quelli di Azione di Carlo Calenda, l’ex senatrice di +Europa Emma Bonino, ma anche storiche figure di sinistra e vicine al Partito Democratico, che ricordano che la separazione delle carriere dei magistrati è stata anche una loro battaglia. Tra i favorevoli c’è anche Antonio Di Pietro, ex pubblico ministero e fondatore del partito Italia dei Valori, di centrosinistra, l’ex deputata del PD Paola Concia, e l’ex deputato del Partito Comunista Italiano Chicco Testa: questi ultimi due fanno addirittura parte di un comitato per il sì.

Schierarsi contro e a favore è comunque per loro una questione perlopiù politica: dipende in gran parte dalla polarizzazione politica che ha creato intorno a questi temi Silvio Berlusconi.

La separazione delle carriere comparì infatti nel programma elettorale di Forza Italia con cui Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel 1994. A quel tempo molti esponenti di partiti di centrosinistra espressero posizioni non ostili all’ipotesi: per esempio la commissione bicamerale promossa e presieduta da Massimo D’Alema (segretario del Partito dei democratici di sinistra, PDS), un organismo politico composto da deputati e senatori chiamati a elaborare riforme della Costituzione condivise tra il 1997 e il 1998, discusse in maniera favorevole dell’introduzione in Costituzione della separazione delle carriere.

Insomma il tema raccolse un certo favore anche nel centrosinistra, e molti dirigenti storici del PD non vogliono espressamente rinnegarlo con un voto contrario al referendum. L’imbarazzo di votare a favore nasce invece dal fatto che la separazione delle carriere diventò successivamente oggetto di una retorica feroce e spesso sguaiata di Berlusconi nei confronti dei magistrati, con tanto di insulti e di ingiurie. È così che la separazione delle carriere divenne un’idea di destra e irricevibile da parte di chi si opponeva a Berlusconi, quindi perlopiù l’opposizione di sinistra e centrosinistra.

Alcuni esponenti di Forza Italia festeggiano davanti al Senato l’approvazione definitiva della riforma della giustizia con la foto di Silvio Berlusconi, il 30 ottobre 2025 (Cecilia Fabiano/LaPresse)

C’è poi una questione che accomuna tutti i referendum: che finiscono per essere legati più alla politica che ci sta intorno che ai temi sostanziali. A sinistra si critica chi nel proprio schieramento appoggerà la riforma anche perché il referendum sulla riforma della giustizia non sarà che un preludio alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2027: è inevitabile quindi che se al referendum dovesse vincere il sì e la riforma passasse, questo sarebbe un grande successo per i partiti al governo – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – che potrebbero esserne molto avvantaggiati nella corsa per il rinnovo del parlamento.

Che il referendum sulla giustizia finisca per essere alla fine un referendum sull’operato del governo non è un’ipotesi così remota: il caso più eclatante fu il referendum costituzionale del 2016 al cui successo Matteo Renzi legò il destino del governo che guidava, e che portò alle sue dimissioni da presidente del Consiglio. E l’ipotesi di “personalizzare” e politicizzare il referendum è proprio uno dei punti di disaccordo all’interno dei partiti di maggioranza.

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche dentro Forza Italia ci sarebbe questa tentazione, dato che il tema rientra tra le battaglie storiche del partito. Sarebbe invece contrario Fratelli d’Italia: nei giorni scorsi Meloni ha escluso che dall’esito del referendum scaturiranno conseguenze per il governo. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, sempre di Fratelli d’Italia e vicino a Meloni, ha detto nei giorni scorsi che «non è una riforma Meloni, è una riforma per la giustizia».

Alcuni parlamentari di Fratelli d’Italia fuori dal Senato, a luglio (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Un altro punto di disaccordo dentro la destra riguarda alcuni aspetti di merito della riforma, non condivisi proprio da tutti. Con una scelta senza precedenti per una simile riforma costituzionale, i partiti al governo hanno infatti vietato ai loro deputati e senatori di proporre qualsiasi modifica durante l’approvazione in parlamento. Lo hanno voluto in particolare Meloni e il suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, per scongiurare il rischio che gli emendamenti potessero complicare il percorso di approvazione o stravolgere l’impianto generale della riforma.

I deputati e i senatori di maggioranza hanno abbastanza obbedito, anche con una certa frustrazione. Lo hanno fatto anche quelli che avevano detto di voler presentare emendamenti migliorativi, come il deputato Enrico Costa o il senatore Pierantonio Zanettin, entrambi di Forza Italia. Perfino il sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha ammesso in un colloquio con Ermes Antonucci del Foglio le sue grosse perplessità sulla bontà della riforma nel suo complesso.

Come ha raccontato il giornalista del Post Valerio Valentini dentro l’ultima puntata di Montecit., Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia che giovedì si è visto festeggiare l’approvazione della riforma fuori dal Senato, con striscioni, megafoni e foto dello storico promotore Silvio Berlusconi, qualche settimana prima confidava in privato che meno male che il governo aveva proibito gli emendamenti, perché ci sarebbero state troppe cose da correggere.

– Leggi anche: Perché la separazione delle carriere dei magistrati è considerata di destra