Nei fumetti non si pensa più
«Quando ero piccolo leggere i pensieri dei personaggi mi permetteva di entrare nella loro testa. Oggi la nuvoletta del pensiero è considerata un segno di infantilismo arcaico e ingenuo»

La voce che ho dentro la testa sa di panna. È bianca e consistente, grassa sui bordi ma senza otturare. Credo sia l’effetto collaterale della lettura di tanti (qualcuno direbbe troppi) fumetti. Avere a che fare con i fumetti significa avere a che fare con un linguaggio fatto di alcuni elementi fondamentali. L’ho detto con l’accetta perché in realtà la questione è più complessa di così.
Si può fare a meno di quegli stessi elementi considerati fondamentali senza per questo intaccare l’appartenenza dell’opera alla forma fumetto. Una pagina di fumetto senza vignette è ancora un fumetto? Gianni De Luca – un fumettista famoso anche perché i personaggi si muovono dentro una pagina priva della classica ripartizione in riquadri – avrebbe detto di sì. Per semplificare dirò allora: ci sono delle cose che sono tipiche dei fumetti.
E fra queste cose tipiche c’è – anzi, c’era – la “nuvoletta del pensiero” (in inglese thought balloon). Variazione della normale nuvoletta del parlato, il balloon o speech balloon, quella del pensiero si presentava come un’icona a forma di nuvola, con gobbe tutto attorno al perimetro e dei pallini che collegavano il testo al personaggio pensante. Era, insomma, una delle tante declinazioni del balloon per far esprimere un personaggio. Ci sono infatti design appositi per urlare, sussurrare, indicare malessere, confusione o altre sensazioni.
Quando ero piccolo, saltare con gli occhi su quelle che ho sempre associato a nuvole morbide di panna (morbidissime, nel caso di certi disegnatori generosi di sbuffi) e leggere i pensieri dei personaggi mi permetteva di entrare nella loro testa, essere spettatore unico di un pensiero privato. Quasi mi piaceva di più leggere le nuvolette del pensiero che i dialoghi: erano un privilegio, una confidenza, perfino la prima esperienza di empatia a fumetti. Non mi interessava solo cosa dicevano, ma il fatto che, pensandolo, lo dicessero a me soltanto. E se oggi non sono uno che parla a voce granché alta forse è anche perché il balloon dell’urlo, aguzzo e minaccioso, un po’ mi infastidiva.
Ho vissuto il thought balloon come uno strumento polivalente, a volte ambiguo: Snoopy e Garfield si esprimevano sempre attraverso nuvolette del pensiero e i loro autori mantenevano un delicato equilibrio nel far intendere al lettore se i padroni dei due animali, e i personaggi umani in generale, fossero in grado di capirli. Era uno scalino di comprensione che mi mandava in crisi. C’era forse il rischio che pensare a una cosa, come faceva Garfield, significasse anche dirla?
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I balloon sono propri di ogni fumetto, da Corto Maltese ai graphic novel passando per le autoproduzioni o le serie Marvel. Sono marcatori fumettistici forti, tant’è che li ritroviamo nei quadri di Roy Lichtenstein, per esempio in Masterpiece del 1962, per evocare con immediatezza quel mondo. Alcune tipologie però, nel corso del tempo, si sono sedimentate e indurite, diventando per il pubblico non appassionato un sinonimo di un certo tipo di fumetto, stereotipato.
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Se una volta la nuvoletta del pensiero era un ferro del mestiere per qualsiasi genere di fumetto, ora la percezione è cambiata e il balloon mentale è diventato un segno di infantilismo arcaico e ingenuo. Provate a prendere un fumetto di Zerocalcare o Manuele Fior, o un albo di Batman: sarà molto difficile che ci vediate dentro una nuvoletta del pensiero. Solo nelle cattedrali del seriale italiano, come Topolino e Tex, vige ancora la tradizione.
È una cosa che sarebbe normale vi sorprendesse, visto che ha sorpreso anche Stephen King. Quando nel 2010 contribuì a una serie a fumetti per Marvel Comics, ricevette una chiamata da un editor che gli diceva «non le usiamo più le nuvolette del pensiero, cerca di riscrivere quelle frasi nelle didascalie». «Penso sia un peccato», commentò King, «perché è come togliere una freccia dal tuo arco. Una delle cose belle delle storie scritte è che puoi scavare nei pensieri di un personaggio. Nei libri si fa di continuo, no?»
Crescendo, le nuvolette sono cambiate con me. Nei fumetti che scoprivo da ragazzo, il pensiero di dubbio o candore si trasformava in contraddizione, menzogna, inconfessabile perversione. Poi a un certo punto la scrittura dei fumetti in quasi tutti i mercati editoriali ha cambiato forma e l’influenza del cinema ha rasato l’introspezione esplicita della nuvoletta a favore del silenzio. Nelle storie in cui la voce interiore è ancora presente, gli autori hanno optato per invenzioni personali, nel caso di opere autoconclusive, o standardizzate, nel caso del fumetto seriale dei grandi editori (Marvel, DC), più bisognoso di coerenza da una serie all’altra.
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Nel fumetto supereroistico americano, per esempio, gli eroi hanno iniziato a essere più riflessivi, introversi, cupi. Il Peter Parker di Ultimate Spider-Man, la testata del 2000 con cui Marvel Comics aggiornò il mito dell’Uomo Ragno al XXI secolo, è un personaggio quasi emo, frustrato e apatico nel relazionarsi con gli altri, distante dal nerd col cravattino che era il Peter Parker degli anni Sessanta. Oggi Peter si lascia andare a soliloqui che intrecciano preoccupazioni adolescenziali, problemi di cuore, ansie generate dalla zia, l’unica figura genitoriale che gli è rimasta, e dubbi su come risolvere il conflitto con il supercriminale di turno – che nella tradizione del personaggio spesso e volentieri è una persona collegata a Peter in qualche modo.
Ricorrere alle nuvolette del pensiero per tradurre questo flusso di coscienza in maniera visiva diventava impossibile. Anche perché, nel nuovo modo di sceneggiare, gli autori non mettevano in testa ai personaggi discorsi compiuti ma rimuginazioni, prime bozze di un pensiero che non si era ancora chiarito con sé stesso. Pause, frasi spezzettate o inversioni di marcia erano all’ordine del giorno e avevano bisogno di uno strumento duttile per restituire questa sensazione.
E quindi sono arrivate le didascalie, che si adattano fin troppo bene a come pensiamo oggi, in maniera veloce, frammentata, caotica, simultanea, ma in realtà erano già parte delle fondamenta comunicative del fumetto. Rettangoli giallo limone, spigolosi, un po’ aridi: per anni sono state lo spazio della narrazione extradiegetica, quella che avviene fuori dall’universo narrativo ma è funzionale a segnalare un cambio di luogo, un salto nel tempo, una colonna sonora che non si sa da dove arrivi, una spiegazione fuori campo o un commento da parte di un narratore invisibile («Come finirà? Scopritelo nel prossimo numero!»). Nel fumetto moderno sono invece diventate il contenitore per i pensieri del protagonista, sparse come coriandoli sulla tavola. Hanno di fatto trasformato il fumetto in una narrazione omodiegetica in cui, cioè, a raccontare la storia è il protagonista e non più una voce esterna.
Proprio Michael Bendis, sceneggiatore di Ultimate Spider-Man che ha lavorato in Marvel per quasi vent’anni, a un certo punto tentò di far tornare di moda le nuvolette del pensiero inserendole nelle storie degli Avengers. Come tutte le cose calate dall’alto, l’iniziativa ebbe vita breve, soprattutto perché era evidente la sua natura posticcia. Quella frittata non poteva tornare uovo.
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Forse è una questione di forma, forse in quella nuvola, che per me assomigliava alla panna e ad altri sarà parsa vapore, fumo o zucchero filato, oggi si intuisce una dimensione invasiva e voyeuristica che permette di vedere ciò che pensa il personaggio come se fosse spiattellato in faccia, un neonato appena partorito, con ancora il cordone ombelicale attaccato.
In Giappone adottano una soluzione diversa: nei manga il pensiero è scritto su una porzione bianca della vignetta senza confini grafici, un testo flottante. Non è un dettaglio stilistico da poco, perché il modo in cui viene visualizzato il pensiero cambia l’esperienza di lettura in maniera sottile. Potrebbe essere questo uno dei tanti micro ingredienti che rendono i manga un’alchimia così di successo in ogni parte del mondo: la disinvoltura con cui il lettore entra senza barriere nella mente del personaggio, creando una connessione più immediata ma non intrusiva. Gli studi fumettologici ancora non hanno spiegato a fondo gli effetti diversi di queste varie forme, ma di sicuro oggi in certi ambiti la nuvoletta del pensiero è diventata un elemento marcato che rimanda alla tradizione, ai codici classici, vetusti.
Per un lettore adulto o per un accademico, queste differenze sono sofismi, ma per un bambino che, come me, si avvicinava al fumetto per visualizzare emozioni, sentimenti o atteggiamenti in maniera così chiara e concreta, quasi tattile, le nuvolette del pensiero sono state d’aiuto per capire il mondo prima che il mondo si facesse capire da sé. Anche oggi continuo ad amarle perché incarnano il paradosso dell’intimo che si fa pubblico. Raccontano il pensiero più privato, ma lo fanno davanti a tutti, stampato nero su bianco. In un’intervista Bendis disse che il thought balloon «è come dire al pubblico quello che vuoi dire nel modo più semplice possibile». Per me la nuvoletta del pensiero è proprio il contrario, l’aggiunta di un livello di sofisticazione che ora si è ridotto a bordo vignetta.
Nel fumetto, d’altronde, c’è ben poco di semplice. Altan, creatore della Pimpa e figlio di Carlo Tullio-Altan, il primo in Italia a vedersi assegnata, negli anni Sessanta, la cattedra di antropologia culturale, una volta disse che il padre non vedeva di buon occhio le sue letture fumettistiche perché non le capiva, nel senso più profondo del termine, non era cioè in grado di leggere il fumetto, di decodificarne l’alfabeto.
Anche se ai bambini non va quasi spiegato come leggerlo, un fumetto, perché lo assorbono in maniera istintiva, l’arsenale comunicativo di una pagina a fumetti è ricco di risorse, stratificato, complesso. Mi ha sempre stupito la confessione di Altan perché è segno di quanto complesso sia il linguaggio fumettistico, perfino in mano al più fine degli intellettuali. È un po’ quello che diceva Picasso a proposito del disegno e che ora adatto: ci vuole tutta la vita per imparare a leggere come un bambino.
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