I pochi israeliani che filmano i raid dei coloni in Cisgiordania
Per difendere i palestinesi: si sentono lontani dal resto della società israeliana, e dicono che la loro «presenza protettiva» non basta più
di Daniele Raineri, foto di Gabriele Micalizzi

Ci sono gruppi di attivisti israeliani che vanno in Cisgiordania per difendere in modo pacifico i palestinesi dagli attacchi dei coloni armati. La chiamano “presenza protettiva”. Gli attivisti sono pochi, si considerano dei reietti dal punto di vista della società israeliana e lo dicono con allegria, come se fosse inevitabile essere pochi e reietti ma anche come se fossero inevitabilmente nel giusto. Si organizzano in turni di sorveglianza giorno e notte e passano il loro tempo nelle zone rurali insieme ai coltivatori palestinesi. Quando i coloni israeliani si avvicinano, e succede spesso, gli attivisti cominciano a filmare nella speranza di inibire le aggressioni.
Gli attivisti pubblicano il materiale che girano sulle piattaforme social e oggi la stragrande maggioranza dei video di attacchi di coloni in Cisgiordania viene da loro. Sono diventati i testimoni diretti della varietà di aggressioni dei coloni, che vanno dal taglio di un tubo dell’acqua in gomma al furto di pecore e all’uccisione a fucilate di singoli palestinesi.
Quando i coloni entrano nei terreni e nelle case di palestinesi, comincia una strana danza con gli attivisti, che si tengono a mezzo metro di distanza. Tutti cercano di intralciare gli altri senza toccarsi. A volte, spiega l’attivista israeliana Yasmin Eran Vardi, 23 anni, i coloni tengono un bastone alzato sopra la testa di un palestinese e aspettano che lui reagisca. Se reagisce, picchiano con il bastone, chiamano la polizia e i soldati e dicono di essere stati aggrediti. Altre volte attaccano senza esitazioni. Altre volte ancora, dopo ore di provocazioni, quando l’esasperazione di palestinesi e attivisti è arrivata al culmine, non succede nulla e i coloni se ne vanno.
– Leggi anche: In Cisgiordania i coloni stanno cercando di prendersi tutto

Volontari filmano i tentativi di incursione di un colono israeliano (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Eran Vardi dice che le aggressioni sono sempre più frequenti e che i coloni stanno accelerando di molto il ritmo, come se sentissero di avere poco tempo a disposizione perché il momento storico è irripetibile. Non c’era mai stato un governo che li appoggiasse in modo così aperto e il clima politico è dalla loro parte.
Mercoledì 22 ottobre il parlamento israeliano ha approvato in via preliminare una legge per estendere la sovranità israeliana alle colonie della Cisgiordania, ed è stata votata in modo trasversale, non soltanto dagli estremisti. I coloni hanno scelto la sfrontatezza, hanno superato la paura delle telecamere dei telefoni e sentono di poter fare tutto quello che vogliono fare, aggiunge l’attivista.

Eran Vardi con una famiglia palestinese che subisce intimidazioni frequenti da parte dei coloni israeliani (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Eran Vardi dice anche che l’accelerazione delle aggressioni è dimostrabile, perché gli attivisti tengono un registro quotidiano degli attacchi dei coloni in Cisgiordania. Se si va a sfogliare questo registro e si guardano gli ultimi anni, il numero è molto aumentato. «La forma d’attacco più grave sono i pogrom. Negli ultimi mesi sono aumentati: prima una volta ogni due settimane, ora anche cinque attacchi in un mese, con feriti gravi tra attivisti e palestinesi. A volte arrivano di notte, 30 coloni mascherati che devastano tutto. La polizia lavora al 100 per cento con i coloni. Molti agenti sono coloni armati della zona. Il governo attuale li incoraggia apertamente».

Alcune foto che mostrano gli attacchi dei coloni, nella sede degli attivisti di Al Tawni (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Una foto di un livido sulla gamba di Yasmin Eran Vardi, che è stata picchiata durante un attacco dei coloni israeliani (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Una delle basi degli attivisti è un edificio basso ad al Tawni, nella zona di Masafer Yatta, la comunità di dodici villaggi palestinesi circondata da colonie israeliane del documentario No Other Land, che quest’anno ha vinto il premio Oscar. Murales, tavolacci, un albero addobbato con una collezione di granate lacrimogene. Dentro c’è gente che cucina e chiacchiera. In maggioranza sono ragazze e ragazzi ventenni, di cui un paio trans, e qualche volontario internazionale. Si definiscono anarchici, senza una struttura organizzata.

(Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Eran Vardi parla un arabo disinvolto con i palestinesi e altri attivisti stanno cercando di imparare la lingua, anche se si tratta di un percorso lungo. Con i coloni può parlare in ebraico, «ma non c’è un vero dialogo. A volte dicono: “Dio mi ha mandato qui”, “Dio mi ha dato questa terra”, “questa è terra israeliana”, “siamo in area C, quindi è nostra”» (la Cisgiordania occupata è stata divisa in tre aree in modo provvisorio durante gli Accordi di Oslo del 1993, A, B e C, a crescente controllo israeliano, ma si tratta comunque di territorio palestinese). «Altri dicono: “Sono un soldato, sto facendo il mio lavoro”. Dicono che gli arabi stanno invadendo la zona, che “queste sono terre ebraiche”, che i palestinesi “sono terroristi”. Dicono: “Dobbiamo difenderci, dobbiamo essere forti”».
– Leggi anche: L’impunità dei cecchini israeliani in Cisgiordania
Shula è un’attivista di 26 anni, parla anche l’italiano perché la famiglia è di Trieste, si è appena laureata in Storia. Il giorno dell’intervista cade durante Rosh haShana, il Capodanno ebraico. «Vedete tutta questa gente? Oggi siamo più del solito perché gli attivisti sono qui per evitare il pranzo di Capodanno assieme a qualche familiare che fa il colono o che sostiene la guerra a Gaza».

Shula mentre filma – durante un’incursione di coloni israeliani in una casa palestinese – un poliziotto israeliano (a destra) e Benyamin Bodenheimer (a sinistra, con la maglietta viola), un colono capo della sicurezza nella colonia di Avigail, noto per aver gambizzato un uomo palestinese ad aprile di quest’anno (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Shula dice che il senso della presenza protettiva è far sentire meno soli i palestinesi mentre sopportano le aggressioni dei coloni. Sapere che c’è qualcuno che ti vede mentre resisti è un grande aiuto morale, sostiene. Racconta che qualche notte prima i coloni hanno bruciato l’auto degli attivisti che si erano fermati una notte a fare compagnia a una coppia di anziani palestinesi soli. Lei era barricata all’interno della casa, quando è uscita ha visto l’auto in fiamme.
Esti, 51 anni, vive a Tel Aviv, ha vissuto a New York, insegna inglese e dice di essere devastata da quello che succede nella Striscia di Gaza. «In Israele sembra che molti non vedano i bambini che muoiono a Gaza e non facciano nulla. Che cosa siete, zombie? Qui, a fare turni di sorveglianza, mi sento nel posto giusto. Venire oltre la Linea Verde [la linea che separa Israele dalla Cisgiordania] è la mia cura. Non possiamo fare molto contro i coloni armati, possiamo fare soltanto video, ma almeno queste cose non succedono in silenzio. L’unica speranza è che la pressione dal mondo esterno riesca a bucare la bolla di propaganda nella quale vivono gli israeliani».

Esti indica un insediamento dei coloni israeliani (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Su TikTok e Instagram uno degli attivisti più conosciuti, Andrey Khrzhanovskiy, conosciuto come Andrey X, sostiene che la presenza protettiva non funziona più. Coloni e soldati non si fanno più fermare dall’ostruzionismo degli attivisti e non si curano di essere filmati. Khrzhanovskiy, 27 anni, è un giornalista ebreo russo che nel 2022 ha lasciato la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina per ricominciare una nuova vita in Israele, ma dice di essere stato colpito dalle ingiustizie contro i palestinesi della Cisgiordania.
Dal punto di vista legale, gli attivisti hanno il vantaggio di essere israeliani e quindi di essere soggetti alla legge civile. I palestinesi della Cisgiordania invece sono soggetti alla legge militare. Vuol dire che in caso di arresto un attivista finisce davanti a un giudice entro ventiquattr’ore e ha accesso immediato a un avvocato. Non ci sono casi di attivisti tenuti a lungo in cella. Un palestinese invece secondo il codice militare può passare otto giorni in prigione prima di comparire davanti a un giudice militare.

Un edificio davanti alla base degli attivisti ad Al Tawni (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Inoltre c’è il rischio della cosiddetta detenzione amministrativa, che funziona così: quando un comandante militare israeliano decide che c’è il rischio che un individuo in Cisgiordania possa commettere un reato in futuro ne ordina la detenzione preventiva, che può durare fino a sei mesi (sei mesi di carcere perché c’è il rischio di un reato, non per un reato effettivamente commesso). Alla scadenza dei sei mesi, il comandante può allungare la detenzione di altri sei mesi, previo passaggio del prigioniero davanti a un giudice militare, e così via. In sintesi: il trattamento degli attivisti israeliani o internazionali in Cisgiordania è molto più leggero rispetto a quello riservato ai palestinesi.



