Cosa succede agli sportivi quando si ritirano
È una delle fasi più difficili da superare, come dimostrano problemi di salute mentale e crisi di identità di molti ex atleti professionisti

Il 14 settembre l’ex pugile inglese Ricky Hatton è stato trovato morto dal suo manager nella sua casa a Hyde, vicino a Manchester. Il giorno prima non si era presentato a un evento a Dubai, dove a dicembre avrebbe dovuto partecipare insieme a un altro ex pugile a un incontro tra “vecchie glorie”. Come emerso durante un’udienza recente nel processo sulla sua morte, Hatton si è probabilmente suicidato: aveva 46 anni.
L’ipotesi del suicidio era circolata fin dalle prime ore. Oltre a essere uno degli sportivi inglesi più conosciuti e amati nel suo paese, praticamente un eroe nazionale, Hatton era impegnato nel promuovere il dibattito sul tema della salute mentale tra i pugili professionisti. In un ambiente tradizionalmente refrattario a qualsiasi espressione umana di fragilità, fu uno dei primi a parlare apertamente dei problemi che aveva avuto dopo il ritiro, nel 2012: la sua dipendenza dall’alcol e da altre sostanze, e i suoi tentativi di suicidarsi.
«Qual è il mio scopo sulla Terra?», disse di essersi chiesto dopo avere smesso con il pugilato e avere litigato con familiari e amici. Al suo funerale, tra gli altri, c’era l’ex campione dei pesi massimi Tyson Fury, un altro che aveva avuto gravi problemi di depressione e di dipendenze dopo un’imprevista interruzione della sua carriera nel 2016. Quando nel 2018 Fury era tornato a combattere, Hatton era tra i suoi allenatori.
Il ritiro è una fase critica nella carriera di qualsiasi atleta, in tutti gli sport ad alto livello. Diverse ricerche la descrivono come una delle esperienze emotive più intense e difficili da superare: per gli atleti stessi ma anche per le persone che hanno intorno. Le ripercussioni psicologiche sono diverse rispetto a quelle che subisce una persona che cambia lavoro o che va in pensione, perché il ritiro riguarda un’attività intorno a cui un atleta professionista sviluppa una parte importante della propria identità, soprattutto quelli più famosi e riconosciuti.
La nuotatrice australiana Stephanie Rice, vincitrice di tre medaglie d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, disse in un documentario della ABC di avere affrontato una crisi di identità dopo il ritiro. «Tutto ciò che sapevo di me stessa e di cui ero orgogliosa, la mia sicurezza, proveniva dal nuoto. La sera ero la golden girl, tre volte medaglia d’oro olimpica. Il giorno dopo mi sono svegliata ed ero la persona peggiore del mondo». Disse di essersi chiesta a lungo chi fosse, perché conosceva «solo Stephanie Rice nuotatrice».

Stephanie Rice dopo una gara alle Olimpiadi di Londra del 2012, due anni prima di ritirarsi (AP Photo/Mark J. Terrill)
Il rischio che il ritiro sia psicologicamente destabilizzante riguarda in generale tutti gli sport ad alto livello, ma in particolare quelli di resistenza che richiedono rinunce particolari e per fare i quali è necessario adottare determinati stili di vita. Quando nel 2021 annunciò a sorpresa di volersi prendere una pausa a tempo indeterminato, il ciclista nederlandese Tom Dumoulin disse che era come liberarsi di «uno zaino di cento chili sulle spalle». Attribuì la sua scelta alla difficoltà a «ritrovarsi come Tom Dumoulin, il ciclista» e a reggere la pressione e le aspettative (tornò dopo cinque mesi, per poi ritirarsi definitivamente alla fine del 2022).
Più uno sport porta l’atleta a mettere in secondo piano altri aspetti della sua vita, dalle relazioni sociali all’istruzione, «maggiore è il rischio che il ritiro sia poi un momento di crisi importante», dice la psicologa dello sport Elisabetta Borgia, coordinatrice del supporto mentale delle squadre nazionali per la Federazione ciclistica italiana. Il ciclismo, aggiunge, è «uno sport particolarmente strutturato in termini di organizzazione, programmazione, carichi di lavoro e utilizzo di diversi dispositivi e strumenti». Di conseguenza, al momento del ritiro, il rischio principale è la sensazione di vuoto e di perdita associata al venire meno di rigide routine quotidiane.
È un discorso che vale anche per altri sport. Ne ha parlato di recente anche uno degli ex calciatori italiani più popolari e ammirati di sempre, Francesco Totti, che si è ritirato nel 2017. In un passaggio di un’intervista per Prime Video ha raccontato di aver pianto per tre settimane, dopo aver deciso di ritirarsi. E ha associato quella sensazione di paura e di smarrimento anche alla scarsa familiarità che lui, come altri calciatori del suo livello, aveva con qualsiasi attività di routine che non fosse in qualche modo legata al calcio.
L’identità di ciascuno di noi si sviluppa su due aspetti fondamentali, spiega Borgia: «il sé personale, che riguarda la propria storia, la propria vita, il proprio contesto familiare, e il sé sociale, che riguarda quali sono i gruppi di appartenenza». Per un atleta professionista il lavoro è una parte molto importante dell’identità, più ancora che in altri casi, proprio perché a certi livelli assorbe una quantità enorme di risorse – fisiche, mentali, economiche e sociali – spesso sottratte ad altre parti della vita personale.
Nel 2017, in un’intervista dopo il suo ritiro, l’ex giocatrice australiana Lauren Jackson citò una frase che le aveva detto una sua compagna di squadra in WNBA, il campionato femminile di basket statunitense. «Gli atleti muoiono due volte. È vero. Una volta finita la carriera, devi ricreare te stessa completamente», disse Jackson.
Un altro fattore che può avere grande influenza sulle ripercussioni psicologiche del ritiro è come avviene: se per effetto di una decisione ponderata nel tempo, e quindi processata ed elaborata, o come conseguenza di un evento imprevisto o incontrollabile. Alcuni atleti vorrebbero continuare ma restano senza contratto, altri si fermano per problemi di salute.
Jackson si ritirò una prima volta nel 2016, dopo una lunga serie di infortuni e operazioni al ginocchio destro, per cui prendeva regolarmente antidolorifici fin da quando aveva vent’anni. «Il dottore disse una cosa del tipo “Non hai alcuna possibilità, le tue ginocchia non ce la faranno”. Ebbi un crollo. Ero in lacrime. Dire addio al mio amore, a quella che era la mia vita, la mia identità, che era così legata al basket… fa male, solo tanto male», disse. Tornò a giocare a 41 anni, nel 2022, e vinse con la nazionale australiana una medaglia di bronzo ai Mondiali di quell’anno e un’altra alle Olimpiadi di Parigi nel 2024.
Diversi esperti di psicologia dello sport sostengono che per gli atleti di alto livello un modo per ridurre il rischio di problemi di salute mentale dopo il ritiro, ma anche prima, sia costruire relazioni umane profonde, e basare su queste anziché sui successi sportivi la propria autostima.
La famosa tennista polacca Iga Swiatek lavora da anni con la sua connazionale ed ex velista Daria Abramowicz, una delle psicologhe dello sport più famose al mondo. Nel 2021, intervistata dal New York Times, Abramowicz descrisse il perfezionismo come un’attitudine non molto utile per gli atleti. Disse che con loro lavorava piuttosto affinché mantenessero relazioni con familiari e amici, fondamentali per la stabilità emotiva. E che per ottenere più facilmente un successo duraturo era più utile che ciascun atleta considerasse il tennis non la propria vita, ma una parte della propria vita.

Iga Swiatek e Daria Abramowicz prima di una semifinale di Swiatek agli Open di Cancún, in Messico, il 5 novembre 2023 (Robert Prange/Getty Images)
Un altro aspetto importante da tenere in considerazione per ridurre il rischio di crisi di identità al momento del ritiro è l’aspetto economico. Spesso gli atleti sono indecisi se smettere o no perché condizionati dal dubbio di non essere capaci di provvedere diversamente al proprio sostentamento (o, nel caso dei più ricchi e più pagati, al mantenimento di un certo stile di vita) e di reinventarsi svolgendo altre attività. Per questo motivo è molto importante per gli sportivi continuare fin da subito a studiare, dice Borgia, che lavora anche con molti giovani atleti.
Dal 2023 diverse università italiane propongono un programma Dual Career, pensato per atleti di alto livello che intraprendono gli studi universitari. In questo modo, dice Borgia, gli atleti possono lavorare su competenze e abilità che vanno oltre la parte sportiva e che diventano poi importantissime nel momento della transizione a una nuova carriera. È un modo per rendere il ritiro parte di un processo, anziché una frattura netta, nella carriera degli atleti.
Per favorire transizioni di questo tipo nel calcio l’associazione degli arbitri professionisti e quella dei calciatori professionisti di Inghilterra e Galles hanno introdotto un programma di borse di studio triennali per ex calciatori che vogliono intraprendere la carriera di arbitri. L’ex calciatore inglese Carl Baker, uno dei primi a usufruirne, ha parlato di recente della depressione di cui ha sofferto dopo il ritiro: «Non so dove sarei o cosa avrei fatto, se non avessi avuto questa opportunità», ha detto a The Athletic.
Adottare prassi del genere o seguire i consigli degli esperti è comunque molto difficile. In particolare nel pugilato, uno sport in cui una certa solitudine e una diffusa attitudine al perfezionismo e alla ricerca della vittoria a tutti i costi influenzano molto l’opinione che i pugili hanno di sé stessi. Vale in particolare per quelli che arrivano da contesti sociali umili o degradati: un caso relativamente frequente.

Ricky Hatton tra Liam e Noel Gallagher degli Oasis alla fine dell’incontro di Hatton contro Paulie Malignaggi a Las Vegas, il 22 novembre 2008 (AP Photo/Jae C. Hong)
Per i pugili che condividono questo tipo di carriera, come ha scritto sul sito The Conversation la ricercatrice Helen Owton, anche una singola sconfitta può indurre una crisi d’identità e sentimenti di vergogna, senso di colpa e senso di fallimento personale. E ad aggravare la situazione contribuisce la tendenza di molti di loro a reprimere queste emozioni, in un ambiente in cui la vulnerabilità è considerata una debolezza.
Legando così strettamente la propria identità sportiva ai successi e all’immagine pubblica, molti pugili partiti dal basso vivono il ritiro come una scomparsa. Ci arrivano senza sicurezza finanziaria, senza un’idea di cosa fare dopo e senza una rete sociale di supporto.
Come ha ricordato Fury, in Inghilterra Hatton fu di ispirazione per un’intera generazione di giovani pugili. Ma fece moltissimo per il pugilato anche dopo il ritiro, forse senza nemmeno averne piena consapevolezza: parlando dei suoi problemi contribuì a cambiare almeno in parte la cultura dominante nell’ambiente e a ridurre lo stigma sociale verso i disturbi mentali.
Nel 2017, intervistato dalla rete ITV, suggerì a chiunque avesse problemi psicologici di parlarne con qualcuno. E disse: «Andare da qualcuno per parlargli, chiedere aiuto e dirgli “ascolta, piango tutti i giorni, non so cosa c’è che non va in me, cosa devo fare?”, è una cosa che ha richiesto da parte mia più coraggio di quanto ne avessi mai mostrato sul ring».
Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112.
Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 tutti i giorni dalle 9 alle 24, oppure via WhatsApp dalle 18 alle 21 al 324 0117252. Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.



