La tassa sulle banche c’è, la tassa sulle banche non c’è

Salvini dice una cosa, Tajani dice il contrario: e un po' tutti sono in imbarazzo per essersi rimangiati una promessa elettorale

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi del 17 ottobre 2025 (MASSIMO PERCOSSI/ANSA)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi del 17 ottobre 2025 (MASSIMO PERCOSSI/ANSA)
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A guardare i profili social dei partiti di governo, non c’è modo di capire se nella legge di bilancio ci sia una nuova tassa sulle banche. Forza Italia ha rivendicato il successo del suo leader Antonio Tajani sostenendo che non ci sia «nessuna tassa sugli extraprofitti». Matteo Salvini ha pubblicato un video in cui, al contrario, dice che nella legge di bilancio c’è una tassa per chiedere soldi «a chi più ha» (cioè le banche), «per dare a chi ha più bisogno». L’ha addirittura definita una «Robin Hood Tax per le banche». Sono due versioni evidentemente inconciliabili.

Ma quindi questa nuova tassa c’è o non c’è? In effetti sì, c’è. Anzi, sarebbe più corretto parlarne al plurale: in realtà il governo vuole introdurre un insieme di nuove tasse alle banche e alle assicurazioni. La questione non è trascurabile e non riguarda solo le banche, ma tutti, perché da queste tasse il governo è convinto di poter ricavare un quarto delle risorse necessarie per finanziare la legge di bilancio del 2026: dei circa 18 miliardi complessivi della manovra, 4,5 arriverebbero proprio da imposte e contributi del settore bancario e assicurativo.

Dopo vari giorni di incertezza e di confusione, e dopo una conferenza stampa in cui sia la presidente del Consiglio sia il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti erano rimasti un po’ vaghi, ora ci sono dettagli più solidi: sia grazie a una prima bozza della legge di bilancio, sia grazie alle informazioni che ha fatto trapelare l’Associazione bancaria italiana (ABI). Da questi dettagli si comprendono anche gli imbarazzi e le contraddizioni dei leader dei partiti di maggioranza.

Una prima parte degli introiti che il governo vuole ricavare da banche e assicurazioni, circa 1 miliardo dei 4,5 stimati, è il risultato dell’aumento di due punti dell’aliquota dell’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap): per le banche passerà dal 4,65 al 6,65 per cento, mentre per le assicurazioni dal 5,90 al 7,90 per cento. Tra le molte tasse sulle banche introdotte, questa è la più consistente perché è l’unica destinata a garantire introiti certi, anche se ha una portata tutto sommato limitata.

Il problema è che la decisione di aumentare l’Irap è imbarazzante un po’ per tutti, nella destra. L’Irap fu introdotta nel 1997 su iniziativa dell’allora ministro delle Finanze di sinistra Vincenzo Visco, nel governo di Romano Prodi, e fin da subito Silvio Berlusconi e Forza Italia ne invocarono l’abolizione. Le ragioni per cui negli anni la tassa è stata criticata riguardano il fatto che si applica sul valore della produzione netta, e non su quello reale: in estrema sintesi, significa che viene tassata la produzione e non l’effettivo guadagno. Per questo l’Irap risulta particolarmente gravosa per le imprese in perdita o in difficoltà, che devono comunque versarla in base a quanto fatturano (al di là di alcune voci che non vengono tenute in conto). Ed è per questo che è stata ritenuta spesso da imprenditori e commercianti una tassa iniqua.

Sull’abolizione dell’Irap Berlusconi fece una battaglia lunga più di vent’anni: l’aveva ribattezzata «Imposta RAPina». Ma la questione non riguarda solo Forza Italia, e quindi Tajani. Anche per Salvini e Meloni l’abolizione dell’Irap era sempre stata una priorità. Nel suo programma elettorale per le elezioni del 2022, Fratelli d’Italia aveva inserito la «progressiva eliminazione dell’Irap»; in quello della Lega c’era scritto che «occorre procedere sulla strada dell’abolizione dell’Irap, un’imposta iniqua che impone agli operatori economici di versare imposte anche nei periodi in cui registrano perdite».

Insomma, aumentando l’Irap – anche se per il solo settore bancario e finanziario, come fece già Mario Monti nel 2011 – tutti i partiti di governo contraddicono anni di propaganda.

C’è poi un’altra tassa un po’ più contorta, che consiste sostanzialmente nel tassare le riserve accantonate dalle banche. Qui serve una premessa. Nel 2023, al termine di una lunghissima polemica interna alla destra sull’opportunità di introdurre una nuova tassa per le banche, il governo decise di adottare una misura che consentiva alle banche di scegliere: potevano pagare una tassa consistente, del 40 per cento, sulla parte degli utili che in base ad alcuni calcoli complessi venivano considerati extraprofitti, cioè profitti eccedenti (perché risultato dell’aumento dei tassi d’interesse su mutui e prestiti, oppure di altre circostanze del mercato finanziario particolarmente favorevoli alle banche); oppure potevano «accantonare a riserva», come si dice nel gergo bancario, una cifra due e volte e mezzo superiore, cioè metterla da parte per rafforzare i loro bilanci e i loro patrimoni.

Ovviamente quasi tutte le banche optarono per questa seconda ipotesi, evitando di pagare una nuova tassa, e il governo dovette fare a meno di quegli ipotetici 3 miliardi di euro che confidava di recuperare. Due anni più tardi, e dopo molte ulteriori discussioni, il governo ci ha di fatto ripensato, e ha deciso di introdurre una tassa proprio sulle riserve che aveva indotto le banche ad aumentare.

Lo sta facendo in una maniera un po’ subdola: anche stavolta infatti vuole concedere alle banche la facoltà di pagare o meno, ma introducendo un sistema che evidentemente incentiva le banche a pagare, e anzi un po’ le costringe. Le banche infatti possono decidere di disaccantonare quelle riserve, cioè sbloccare i soldi tenuti da parte, tra le altre cose per pagare i dividendi ai propri azionisti: se però lo faranno nel 2026, quelle somme verranno tassate al 27,5 per cento; se lo faranno nel 2027 la tassa sarà del 33 per cento; e se lo faranno dal 2028 in poi la tassa sarà del 40 per cento.

In sostanza, per come è scritta adesso, la norma pone i dirigenti delle banche di fronte a due alternative: sbloccare subito quegli accantonamenti e pagare una tassa consistente ma comunque vantaggiosa, oppure non sbloccarli mai. Da questo punto di vista, il contributo che è stato descritto dal governo come «volontario» è ben poco volontario. La scelta è stata politica.

Meloni ha preteso che la nuova tassa non apparisse «punitiva» nei confronti delle banche, con le quali lei del resto può dire di avere un buon rapporto: è per questo che alla fine si è scelto questo sistema un po’ contorto. Tuttavia è sempre rischioso stimare entrate certe a fronte di una tassa che lascia possibilità di scelta a chi dovrebbe pagarla. Alcune banche potrebbero infatti voler aspettare un anno in più, prima di pagare, magari confidando in una revisione della norma. In ogni caso la legge di bilancio può ancora cambiare molto, prima di essere approvata definitivamente dal parlamento entro la fine di dicembre.

Sul piano politico e della propaganda, invece, i partiti di governo proseguono una sorta di gioco delle parti che va avanti da ormai tre anni. Meloni non si è mai detta contraria a una nuova tassa sulle banche, e anzi la prima versione di questa norma, nel 2023, fu promossa proprio dai suoi collaboratori alla presidenza del Consiglio. Salvini, come spesso gli capita, interpreta il ruolo di quello più radicale di tutti: come aveva fatto già lo scorso anno e quello prima, anche stavolta ha dato grande risalto a questa tassa, con toni anche abbastanza veementi contro le stesse banche ed esagerando un po’ sull’effettivo impatto della misura.

Anche l’eccessivo entusiasmo di Salvini evidenzia però qualche contraddizione nel suo partito, che è lo stesso del ministro dell’Economia Giorgetti. Quest’ultimo, pur tenendo con fermezza una linea analoga a quella del suo segretario, ha sempre usato toni meno duri. Del resto proprio il ministero dell’Economia controlla, più o meno direttamente, sia BancoPosta, la banca che fa capo a Poste Italiane, sia soprattutto Monte dei Paschi di Siena, una delle più importanti banche del paese: nessuna delle due nel 2023 pagò la tassa su cosiddetti extraprofitti. Entrambe, come le altre, decisero di mettere da parte le riserve.

– Leggi anche: Ai Berlusconi interessano gli affari di famiglia, più che la politica

Non c’è dubbio però sul fatto che sia Tajani a vivere questa vicenda con maggiore imbarazzo. Da una parte perché l’aumento dell’Irap è una sconfessione plateale di vent’anni di retorica di Forza Italia, che si vanta di essere la componente liberale e a favore della riduzione delle tasse nella coalizione di destra. Dall’altra, soprattutto, perché un intervento così chiaramente contro gli interessi del settore colpisce anche la famiglia Berlusconi, che attraverso Fininvest detiene quasi il 30 per cento di Banca Mediolanum, considerata un po’ la cassaforte di casa.

Non è un caso che l’unica volta in cui Marina Berlusconi ha criticato pubblicamente Meloni fu nel settembre del 2023, proprio per stigmatizzare l’idea di introdurre una tassa sugli extraprofitti. Tajani si trova dunque a dover giustificare questa scelta di fronte alla famiglia del fondatore e storico leader del partito che lui ora dirige, e le cui finanze dipendono in modo consistente proprio dagli eredi.