Sembra quasi il governo Monti
In questi tre anni il governo Meloni è stato attentissimo a risanare i conti pubblici e spendere il meno possibile, rimangiandosi molte promesse spendaccione: perché?

Luigi Marattin, deputato del Partito Liberaldemocratico, ogni volta che interroga in parlamento il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti gli rivolge grosso modo la stessa domanda: «Come ci si sente a fare l’esatto contrario di quello che il suo partito le chiede?». Lo ha fatto anche la scorsa settimana, e il ministro ha risposto che sulle «provocazioni di carattere personale mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Ma quella di Marattin, se pure è una provocazione, non è solo di carattere personale, perché coglie un dato politico: «E cioè il fatto», spiega, «che da ormai tre anni ci vediamo propinare una politica di bilancio estremamente cauta, quasi austera».
Stabilire con esattezza cosa sia “austerità” e cosa no, tecnicamente, è complicato. Ma se con austerità si intende una politica di bilancio estremamente oculata, molto più attenta a tenere in ordine i conti pubblici e risanare il bilancio che non a crescita e investimenti, allora il governo Meloni in questi tre anni è stato nel complesso molto austero. E per quanto ognuno possa ovviamente decidere cosa pensarne, è un fatto che sia un atteggiamento molto diverso da quello promesso da Meloni e dalla sua coalizione in campagna elettorale.
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L’austerità del governo Meloni è dimostrata dall’andamento generale della finanza pubblica. Nel 2022, quando si insediò, l’Italia era in una situazione molto complicata per quanto riguarda il deficit (o disavanzo) annuale, cioè quanto i soldi spesi dallo Stato superavano le sue entrate. Convenzionalmente il deficit non si misura in senso assoluto: lo stesso disavanzo può essere significativo per uno stato poco popoloso e irrilevante per uno molto popoloso. Quindi si legge in rapporto al PIL, il prodotto interno lordo, il dato che indica generalmente la dimensione dell’economia nazionale. I parametri di bilancio a cui devono attenersi i paesi dell’Unione europea prevedono, salvo deroghe, un rapporto tra deficit e PIL non superiore al 3 per cento.
Nel 2022 il deficit italiano era dell’8,1 per cento rispetto al PIL, principalmente a causa delle conseguenze della pandemia. Nel 2023 scese al 7,2, per poi ridursi fino al 3,4 per cento nel 2024. Secondo le recenti stime del ministero dell’Economia contenute nel Documento programmatico di bilancio, il 2025 si chiuderà con un deficit al 3 per cento del PIL e l’anno prossimo scenderà al 2,8 per cento. Questo consentirà con ogni probabilità all’Italia di uscire già nei prossimi mesi dalla procedura per deficit eccessivo aperta dalla Commissione Europea nel 2024: addirittura di farlo con quasi un anno di anticipo rispetto a quanto fosse previsto e ci fosse richiesto.
Quella appena approvata dal Consiglio dei ministri è una legge di bilancio che, in maniera per certi versi straordinaria, non si finanzia quasi per nulla in deficit. Vuol dire che lo Stato non si indebiterà per finanziare le misure che intende promuovere, ma le coprirà con aumenti di tasse, riduzione della spesa pubblica e rimodulazione di alcuni fondi nazionali ed europei. Almeno in teoria. Nella pratica, alcune delle coperture messe a bilancio appaiono un po’ aleatorie, come quelle che dovrebbero derivare da nuovi contributi volontari delle banche: non è detto che tutto andrà come il governo ha annunciato. Ma resta comunque un impegno significativo, che dimostra l’attenzione a questo parametro di Giorgetti e Meloni.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al Forum internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione di Coldiretti, a Roma, 14 ottobre 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Un altro dato macroeconomico rilevante, in questo senso, è l’avanzo primario, ovvero la differenza tra entrate e uscite nel bilancio pubblico al netto degli interessi che si pagano sui soldi presi in prestito, cioè sul debito. È l’indicatore che dice come si chiuderebbe il bilancio nazionale se non ci fosse da gestire il debito pubblico. Prima del Covid, nel 2019, l’Italia aveva un avanzo primario dell’1,9 per cento del PIL: incassava più di quel che spendeva. Dal 2020 in poi divenne invece negativo. Tra il 2023 e il 2024 il governo Meloni ha risanato notevolmente i conti, da questo punto di vista: da un saldo negativo del 3,5 per cento si è passati a un saldo positivo dello 0,5 per cento del PIL. Quattro punti di PIL in un solo anno sono parecchi, anche se hanno contribuito a questo risultato la fine di alcune spese emergenziali avviate durante la pandemia. Nel 2025 il saldo è ulteriormente migliorato, fino allo 0,9 per cento del PIL.
La riduzione del debito pubblico non sta andando altrettanto bene. Dal 138,3 per cento rispetto al PIL del 2022, nel 2023 è sceso al 134,6 per cento, ma poi è tornato a salire e lo farà anche nel 2026, fino al 137,4 per cento. Sul debito però gravano ancora le conseguenze del Superbonus del 110 per cento per le ristrutturazioni edilizie introdotto dal secondo governo Conte. Il governo di Meloni si è trovato a dover gestire gli effetti che quella misura produce ancora sul bilancio dello Stato (circa 150 miliardi, molti dei quali ricadono proprio sui bilanci di questi ultimi anni). Nel solo 2025, sostiene Giorgetti, ha influito per 40 miliardi.
Tutto questo avviene peraltro in un contesto internazionale complicato. Le guerre in Ucraina e a Gaza, i dazi di Trump, l’affanno prolungato del sistema produttivo tedesco che rallenta anche quello italiano hanno depresso l’economia, e non hanno invogliato le persone a spendere. In questo contesto la politica economica di estremo rigore adottata da Meloni e Giorgetti sembra ancora più stridente: in periodi di crisi, o comunque di scarsa vitalità dell’economia, di solito si tende a favorire investimenti e crescita, a usare il denaro pubblico per invertire l’andamento dell’economia (si chiamano per questo “misure anticicliche”) anche a costo di trascurare il risanamento dei conti. Meloni e Giorgetti hanno invece preso un’altra strada.
I pochi soldi che avevano a disposizione li hanno usati per lo più per favorire il ceto medio-basso: nei primi due anni si sono concentrati sulla fascia più povera della popolazione e sui lavoratori dipendenti, con la stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale e contributivo. In quest’ultima manovra intendono occuparsi di chi guadagna un poco di più, tra i 28 e i 50mila euro annui, tagliando di due punti l’aliquota IRPEF corrispondente (una riduzione delle tasse per quella fascia di reddito dal 35 al 33 per cento).
Il governo ha fatto invece molto poco, quasi nulla, in favore delle imprese. Meloni e Giorgetti hanno lasciato che a dare un minimo di spinta alla crescita e agli investimenti privati fosse il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR): senza quello la pur scarsa crescita di quest’anno (0,5 per cento del PIL) non ci sarebbe stata. Lo stesso vale per la produzione industriale: il governo non ha saputo fare nulla per invertire i dati negativi e in generale una tendenza di costante e allarmante sofferenza delle imprese.
È difficile stabilire con certezza se altre strategie avrebbero pagato di più, se cioè con un atteggiamento meno rigoroso e più espansivo si sarebbe innescata una crescita maggiore e si sarebbero favoriti investimenti e consumi. E il dibattito politico sul tema è condizionato dai ruoli avuti in precedenza da tutte le parti in causa: l’attuale opposizione italiana per esempio si è spesso intestata la responsabilità sui conti pubblici, e capitò che durante la campagna elettorale accusasse Meloni di compromettere i rapporti con l’Europa con politiche di spesa irresponsabili e il mancato rispetto dei vincoli di bilancio. Non sta succedendo.
Allo stesso modo, questo atteggiamento estremamente prudente e responsabile è in contrasto con la propaganda fatta per anni da Fratelli d’Italia e Lega, prima che andassero al governo. Quando era all’opposizione Meloni rimproverò a tutti i governi dal 2013 in poi un’eccessiva obbedienza ai vincoli finanziari europei, e quasi sempre lo fece con toni sprezzanti e veementi.
Nel 2017 scriveva che «gli ultimi quattro governi li hanno scelti» le agenzie di rating. Oggi, da presidente del Consiglio, Meloni fa spesso riferimento proprio all’apprezzamento delle agenzie di rating e al buon andamento dello spread per rivendicare i risultati del suo governo e la stabilità che ha dato al paese.
Questa incoerenza viene notata non solo dalle opposizioni ma anche da qualche suo predecessore, tra cui proprio Mario Monti, che oggi è senatore e guidò nel 2011 un governo tecnico allo scopo di salvare l’Italia dalla bancarotta diventando sinonimo di “austerità” in politica economica. Meloni definì Monti il simbolo della politica «lacrime e sangue», succube dei «dettami della troika e di Bruxelles».
In particolare criticò la sua riforma delle pensioni (la cosiddetta legge Fornero), additata a lungo anche da Matteo Salvini come la più iniqua delle riforme pensionistiche. Eppure, dopo vari tentativi trasversali e riusciti di modificarla diminuendo di nuovo l’età pensionabile, il governo di Meloni si è posto in sostanziale continuità coi governi più austeri. Nel 2024, al netto di alcune correzioni puntuali, ha di fatto reintrodotto molte parti di quella legge a lungo biasimata: tanto che Monti arrivò a chiedere – ironicamente, con i suoi consueti modi garbati – le dimissioni di Salvini per manifesta incoerenza.
In questa discrasia tra la retorica spendacciona del passato e le scelte attuali improntate all’estrema responsabilità, c’è l’inconciliabilità tra la propaganda e la realtà di un paese che ha il più alto debito pubblico tra i grandi paesi dell’Occidente. Ma c’è anche, per Meloni, il ricordo di quanto avvenne nel 2011, quando il governo di Silvio Berlusconi, nel quale lei era ministro della Gioventù, fu costretto a dimettersi proprio per le conseguenze della crisi finanziaria che investì il paese. Un concetto che, non a caso, lo stesso Giorgetti ha rievocato di recente, quando ha detto che «normalmente la sinistra arriva al governo con golpe finanziari o giudiziari».
C’è anche dell’altro. C’è l’esigenza, da parte di un governo che è nato tra i timori e le perplessità dei mercati finanziari, un governo in cui sia la presidente del Consiglio sia il ministro dell’Economia fino a qualche anno fa professavano la necessità di uscire dall’euro, di dimostrare oltre ogni possibile dubbio la propria ferma volontà di tenere una politica di bilancio responsabile e non essere visti come una minaccia per l’Europa o per l’euro (e quindi per tutti i paesi che ne fanno parte). Se Mario Draghi poteva permettersi qualche scantonamento rispetto ai vincoli europei, proprio perché era Draghi e nessuno avrebbe messo in discussione la sua affidabilità, per Giorgetti e Meloni le cose sono un po’ più complicate.



