Perché serve una legge per i “baby influencer”
Ovvero i minori che diventano famosi online, spesso per volontà dei genitori: è in discussione al Senato in questi giorni

Negli ultimi anni la protezione dei minori online è diventata un tema fortemente discusso nella politica di decine di paesi. È una delle poche questioni su cui Democratici e Repubblicani statunitensi si trovano, almeno in linea di massima, d’accordo. È uno degli obiettivi centrali dell’Online Safety Act britannico, voluto per anni dai governi Conservatori del paese ma definito «necessario» anche dall’attuale primo ministro Laburista Keir Starmer. E se ne occupano anche quattro diversi disegni di legge presentati negli ultimi due anni da vari senatori e deputati italiani, appartenenti sia ai partiti di governo che a quelli d’opposizione.
Uno di questi, il ddl 1136, presentato dalla senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni, è in discussione in un’apposita commissione del Senato in queste settimane. Il testo definitivo non è ancora stato deciso, e potrebbe ancora cambiare molto, dato che sono state proposte decine di emendamenti. Gli esperti di privacy e diritti digitali, però, lo osservano con particolare attenzione perché potrebbe diventare la prima legge italiana a regolamentare il fenomeno dei baby influencer e del cosiddetto “sharenting” (dall’unione delle parole “share”, condividere, e “parenting”, essere genitori).
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Con l’espressione “baby influencer” si intendono adolescenti e bambini – anche molto piccoli – che diventano dei personaggi noti sui social network, da migliaia e migliaia di follower. A volte succede perché anche i loro genitori sono celebrità o content creator molto seguiti che scelgono di condividere la vita dei loro figli in grande dettaglio fin dai primi anni di vita. Tra i più seguiti baby influencer in Italia, per esempio, ci sono i figli del modello Mariano Di Vaio: tutti e tre hanno un proprio profilo dedicato su Instagram e centinaia di migliaia di follower.
Altre volte, adulti senza nessun precedente seguito si rendono conto di avere un figlio particolarmente fotogenico o divertente, e decidono di creare contenuti sul tema: è il caso di Amelia Popovich, che è nata nel 2013 e da più di otto anni è al centro del canale YouTube Ameli TVIT, con oltre 5 milioni di iscritti. Nel caso di Amelia, i genitori appaiono spesso e volentieri nei video, e capita di frequente che un baby influencer non abbia un profilo proprio, ma appaia soltanto nei contenuti pubblicati sui profili dei genitori.
Altre volte, però, il bambino è l’unico protagonista. È, per esempio, il caso di “Leo Toys”, che ha cominciato ad apparire in alcuni video in cui parlava di dinosauri e giocattoli, girati e pubblicati dalla madre su YouTube, quando aveva sei anni. Negli anni ha raggiunto quasi 600mila follower ed è stato a lungo considerato il principale content creator italiano di riferimento per la fascia d’età tra i 4 e i 10 anni.
Il pubblico per questo genere di contenuto è piuttosto eterogeneo: ci sono adulti che seguono piccoli modelli o content creator perché li trovano buffi o carini, oppure perché hanno a loro volta dei bambini e cercano ispirazione per i vestiti e i giocattoli da comprare. Soprattutto per quanto riguarda i giovani youtuber, però, il pubblico è composto in larga parte da altri bambini, che vedono YouTube come una delle principali fonti di intrattenimento, alla stregua della televisione per le generazioni precedenti. Le aziende, per generare desideri di acquisto anche in queste fasce d’età, da anni ingaggiano i baby influencer, inviando loro prodotti da testare o scritturandoli per pubblicità anche più strutturate.
Quasi sempre, i manager sono i genitori, che firmano i contratti per conto dei figli e organizzano le loro giornate nel dettaglio, con piani editoriali anche piuttosto serrati, non molto diversi da quelli che seguirebbe un content creator adulto. Come per gli influencer adulti, tutto è guidato dalla consapevolezza che a una crescita del numero di follower corrisponde una crescita della possibilità di guadagno.
È un fenomeno che suscita molte perplessità, data la difficoltà di trovare un equilibrio tra libertà d’espressione, opportunità economiche e protezione dei diritti fondamentali dei bambini. Da un punto di vista psicologico, c’è chi teme che i bambini cresciuti in questo modo possano soffrire del fatto di essere esposti precocemente ai giudizi e alle critiche del pubblico – anche solo nelle sezioni commenti – e alla pressione costante a cui sono tipicamente sottoposti i personaggi pubblici: è una questione di cui hanno spesso parlato, in passato, anche gli attori “tradizionali” diventati famosi da piccoli. A questo si aggiunge il fatto che, in generale, su internet esiste il rischio costante di subire cyberbullismo e sessualizzazione.
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Spesso, intervistati al riguardo, i genitori dei baby influencer dicono che i loro figli amano partecipare a queste attività perché le vedono come un gioco e non come un lavoro. Questo non toglie, però, che di lavoro si tratti, e a maggior ragione dal momento in cui il minore è tenuto da contratto a partecipare alla creazione di specifici contenuti in cambio di soldi.
In Francia dal 2020 il codice del lavoro si applica per legge anche alle attività dei baby influencer, che vengono fatte quindi rientrare nella categoria del lavoro minorile. Come già succedeva per i bambini attori e modelli, vengono quindi applicati limiti agli orari di lavoro e i genitori sono obbligati a versare tutti i guadagni ottenuti tramite le attività online dei propri figli su conti correnti intestati esclusivamente al minore, che rimangono bloccati fino al compimento del sedicesimo anno di età. Inoltre, le aziende che vogliono coinvolgere minori nelle loro attività di marketing devono ottenere l’autorizzazione delle autorità locali.
In Italia, al momento, per i baby influencer mancano tutele specifiche di questo tipo. L’ordinamento giuridico italiano ha naturalmente trattato spesso in passato i temi del lavoro minorile e del trattamento delle immagini e dei dati personali dei minori, e queste norme si applicano anche ai baby influencer: non c’è, quindi, un totale vuoto normativo. Per esempio, negli ultimi anni vari tribunali hanno stabilito che serve il consenso di entrambi i genitori per pubblicare foto di minori online, anche per motivi non commerciali. E le più recenti linee guida dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) si applicano a tutti gli influencer “rilevanti”, ossia quelli sopra i 500mila follower, a prescindere dalla loro età.
Manca, però, «il riconoscimento del “minore-creator” come soggetto economico da tutelare, e non solo da proteggere moralmente», dice Tania Orrù, esperta e consulente in materia di privacy e diritto digitale. «Un bambino non può essere costretto a fare riprese su riprese per un reel, o a sorridere per un brand quando dovrebbe essere a scuola: quella non è spontaneità, è produzione».
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A suo avviso, il nuovo disegno di legge può andare in questa direzione, ma sarà efficace soltanto nel caso in cui sia accompagnato da monitoraggi affidabili e costanti e da un sistema sanzionatorio funzionante. Non è ancora chiaro se succederà: in una prima stesura del disegno di legge, per esempio, le direzioni provinciali del lavoro erano chiamate ad autorizzare l’attività degli influencer sotto i 15 anni se questa attività produceva entrate dirette o indirette sopra i 10mila euro l’anno.
Nella versione più recente del testo, il ruolo delle direzioni provinciali è stato molto ridotto. Bisognerà aspettare il testo definitivo anche per capire se verrà disposto l’obbligo di aprire un conto corrente intestato al minore che non può essere utilizzato da chi esercita la potestà genitoriale, come avviene in Francia.



