Perché a volte cambiamo accento

Per ragioni di insicurezza, ma anche per integrarci o compiacere gli altri, dicono diversi studi

La scena in cui Fantozzi propone di fare l’accento svedese prima di telefonare al capo
Una scena del film del 1980 Fantozzi contro tutti, in cui Fantozzi propone di «fare l’accento svedese»
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I racconti riguardo agli studenti fuorisede che tornano nella loro città dopo un semestre e parlano già con un accento diverso rispetto a quando erano partiti si assomigliano tutti, non solo in Italia. Quando capita di vivere per lungo tempo in un luogo lontano dal paese in cui si è cresciuti, acquisire l’accento della lingua parlata in quel luogo è piuttosto comune. Fa parte di un normale processo di assimilazione involontario e graduale, anche se variabile da persona a persona.

Esistono però anche dei casi in cui le persone modificano volontariamente la cadenza e l’inflessione della loro voce, per varie ragioni. Quando imitano qualcun altro per scherzo, per esempio, o quando vogliono darsi un tono dissimulando il loro accento naturale. Altre volte lo fanno per sentirsi socialmente accettate in ambienti nuovi e tra sconosciuti. Sono casi perlopiù aneddotici, ma non così rari.

Erica Mayor, una scrittrice statunitense cresciuta in una città rurale della Georgia, ha finto per anni di essere di Londra dopo essersi trasferita a 25 anni in una città degli Stati Uniti diversa da quella in cui era cresciuta. In un articolo recente sulla rivista Psyche ha scritto di aver simulato un accento londinese inizialmente per gioco, per fare colpo su un barista, ma di averlo poi mantenuto dopo essersi accorta che quell’accento incuriosiva le persone e la faceva sentire più affascinante e popolare.

«Sapevo che era ridicolo. Eppure, ogni volta che funzionava, provavo sotto pelle una sensazione di potere. Come se avessi scoperto un trucco segreto a un gioco in cui non sapevo di stare perdendo». Mayor ha associato questa sua scelta alla paura di subire discriminazioni linguistiche. È un problema reale e studiato, noto come razzismo sonoro, linguicismo o accentismo, e riguarda soprattutto le persone migranti oppure quelle che provengono da zone il cui accento è percepito da un grosso pezzo dei parlanti di quella lingua come volgare o indice di scarsa istruzione (il sud degli Stati Uniti, nel caso di Mayor).

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Diversi studi mostrano che lo stigma latente verso gli accenti molto marcati o che si discostano da un modello standard di riferimento può determinare insicurezze e risultati negativi nella scuola e nel lavoro. Uno studio del 2021 condotto alle scuole medie e superiori in Toscana mostrò che alcuni studenti provano disagio e sviluppano un complesso di inferiorità linguistica a causa del loro accento. Questo influenza negativamente la loro autostima e potrebbe indirettamente ripercuotersi sui loro risultati scolastici.

Una ricerca del 2025 sulle sottili forme di discriminazione sul lavoro ha mostrato che nei colloqui di lavoro le persone con un accento giudicato “standard” sono sistematicamente considerate più competenti rispetto a quelle con un accento non standard. La correlazione tra risultati negativi nei colloqui e accento non standard è ancora più forte nel caso delle donne.

Mayor ha spiegato che il suo accento non è tanto marcato, ma è il tipo di accento che puoi aspettarti di sentire negli stati del Midwest e del Sud: «un mix che non indica una città specifica ma porta comunque una discreta impronta di classe e di luogo». Lo ha descritto come un accento che «suonava sempre “classe operaia” a chi voleva leggerlo in quel modo», fuori dalla città in cui era cresciuta. Aveva quindi cercato di dissimularlo per evitare che gli altri la etichettassero: ogni volta che qualcuno credeva davvero che lei fosse londinese provava «un misto di vergogna e potere».

A volte nascondere o cambiare volontariamente il proprio accento può essere una risposta a determinate aspettative o norme sociali, o un modo per cercare di integrarsi in nuovi gruppi. Nel 2013, a proposito di questo argomento, il network radiofonico statunitense NPR raccontò, tra gli altri, il caso di una donna statunitense che dopo essersi trasferita in Irlanda si esercitò a lungo affinché il suo accento sembrasse irlandese. Lo fece dopo aver notato che «spesso per beni e servizi i prezzi erano due: ragionevoli per la gente del luogo, molto più alti per gli altri».

A parte casi del genere, influenzati da insicurezze individuali o dalla paura di subire discriminazioni, nella maggior parte degli altri casi cambiare il proprio accento fa parte di un normale fenomeno di adattamento, perlopiù involontario. Ha a che fare con processi psicologici inconsci fondamentali nello sviluppo e nelle interazioni dell’individuo, tra cui l’“effetto camaleonte”: l’imitazione inconsapevole di comportamenti ed espressioni verbali e non verbali di altre persone per stabilire con loro relazioni di empatia e di fiducia.

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In sostanza, ci adattiamo a parlare – ma anche a gesticolare – come le persone intorno a noi per facilitare la comunicazione e le interazioni. La capacità umana di alternare diversi accenti, dialetti ma anche registri a seconda delle esigenze, definita code-switching, è piuttosto diffusa in particolare tra commercianti e politici.

È un’abilità che in passato è stata spesso riconosciuta a Hillary Clinton, candidata dei Democratici statunitensi alle elezioni presidenziali del 2016. Originaria dell’Illinois (nel Midwest), Clinton «è in giro da così tanto tempo, ha svolto così tanti lavori diversi e ha vissuto in così tanti posti diversi, che i suoi diversi accenti sono una specie di mappa della sua carriera», scrisse Bloomberg nel 2015. Ma adattare il modo di parlare a seconda dell’uditorio è una cosa che fanno, più o meno consapevolmente, anche altri politici.

Adattare l’“accento” al contesto non è peraltro una caratteristica soltanto umana. Per uno studio di sociobiologia del 2021 un gruppo di ricercatori brasiliani e inglesi osservò il comportamento di due specie di scimmie della foresta pluviale amazzonica: il tamarino calvo (Saguinus bicolor) e il tamarino dalle mani gialle (Saguinus midas).

Come ogni primate non umano, i tamarini utilizzano una quantità fissa di “richiami” associati a vari stimoli ambientali (la presenza di determinati predatori, per esempio). Le due specie osservate per lo studio vivevano in territori limitrofi: condividevano quindi lo stesso ambiente e lo stesso repertorio di richiami, che però differivano per piccole variazioni di timbro, di tono o di lunghezza, rilevabili solo tramite lo spettrogramma (una rappresentazione grafica dei suoni).

Il gruppo di ricerca scoprì che i tamarini dalle mani gialle assumevano lo stesso “accento” dei tamarini calvi quando entravano nel loro territorio. In quel caso le differenze di sfumatura dei richiami tendevano a sparire, probabilmente per il bisogno di rendere la comunicazione più efficiente. In precedenza questo tipo di convergenza dei richiami degli animali era stato osservato anche tra gli uccelli che condividono lo stesso territorio.

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Il modo in cui le persone pronunciano normalmente le parole è insomma il risultato di molti fattori che si sovrappongono, individuali e collettivi, che nel tempo possono cambiare.

Mayor, la scrittrice statunitense che usò a lungo un falso accento londinese, a un certo punto smise, ma dopo un processo lento e difficile: «fu come togliermi un costume a cui mi ero affezionata, anche quando sapevo che mi stava soffocando», ha scritto.

Smise di usarlo non perché non desiderasse più essere ascoltata e benvoluta, ma perché quella modalità le era diventata faticosa e sgradevole, e voleva cominciare a esprimersi diversamente, con la sua voce. La voce di una ragazza «di nessun posto speciale, arrivata in città con una valigia economica e una storia insignificante. Ma la sua storia è la mia. E la sua voce è sufficiente», ha scritto.