In Marocco l’economia va bene, ma si protesta lo stesso
Nonostante la crescita viene contestato il modello economico, che ha lasciato fuori grossi pezzi della popolazione

Le proteste di queste settimane hanno messo in discussione il modello economico del Marocco, molto pubblicizzato all’estero dalla monarchia che lo governa come un paese in forte sviluppo economico, che fa grandiosi investimenti nelle infrastrutture. In parte è così ma questa narrazione, che si concentra sulla crescita, omette che lo sviluppo è asimmetrico: ha lasciato indietro strati della popolazione, anzitutto i giovani che organizzano le manifestazioni, e le aree rurali.
In questo senso, è emblematico che uno dei principali slogan del movimento di protesta sia: «Non vogliamo stadi ma ospedali». I manifestanti infatti contestano le spese del governo per i Mondiali di calcio del 2030 – incluso lo stadio che sarà il più grande del mondo – e ne chiedono invece maggiori per scuole e ospedali, o per potenziare i servizi pubblici carenti. Per il governo ospitare i Mondiali, insieme a Spagna e Portogallo, è anche una grossa operazione d’immagine.

L’interno dello stadio di Rabat, in una foto di settembre (EPA/JALAL MORCHIDI)
Dal 2001 al 2017 il Marocco ha investito ogni anno nelle infrastrutture tra il 25 e il 38 per cento del PIL, una delle percentuali più alte al mondo. Tra i simboli di questo sviluppo ci sono il porto di Tangeri Med, diventato uno dei principali del Mediterraneo, e la prima linea ferroviaria ad alta velocità dell’Africa, inaugurata nel 2018.
Le condizioni di vita nel paese però non sono migliorate con la stessa velocità. Per questo il centro studi Middle East Institute ha parlato di un «paradosso dello sviluppo»: cioè di investimenti, tra cui anche quelli cinesi, che hanno creato un numero limitato di posti di lavoro e, malgrado gli indicatori economici positivi, non hanno avuto ricadute concrete o immediate per la maggior parte della popolazione.

Una protesta a Rabat, il 3 ottobre (AP Photo/Mosa’ab Elshamy)
Le statistiche dicono che nel decennio 2014-2024 il tasso di povertà è sceso dall’11,9 al 6,8 per cento. Che il PIL cresce e continuerà a farlo: quest’anno del 4,6 per cento, secondo le stime della banca centrale marocchina. La sociologa marocchina Samira Mizbar ha spiegato a Le Monde che però «i dati ufficiali si fermano ben lungi dal raccontare la precarietà di buona parte delle persone marocchine, inclusa la classe media».
Vale soprattutto per le regioni periferiche, come quella meridionale di Souss-Massa, dove ci sono state le proteste più intense. Si trovano qui la città di Lqliâa, dove la polizia ha ucciso tre manifestanti, e Agadir, dove c’è stato l’evento che ha provocato le proteste: la morte di otto donne nel giro di una settimana all’ospedale pubblico.

Una coltivazione di alberi di argan, nella zona di Agadir, in una foto di maggio (AP Photo/Mosa’ab Elshamy)
È una zona agricola in cui la produzione, e la popolazione, sono cresciute anche per i piani del governo. Si sono moltiplicate le serre, specie nell’area di Ait Amira, e con loro il lavoro in nero, a condizioni vessatorie, e gli insediamenti illegali.
Da queste parti, i dati sull’istruzione sono incomparabilmente peggiori rispetto alla media nazionale: a Lqliâa, per esempio, meno del 18 per cento degli abitanti ha finito le scuole medie.

Un presidio della polizia a Rabat, il 2 ottobre (AP Photo/Mosa’ab Elshamy)
La regione di Souss-Massa è anche quella del primo ministro, Aziz Akhannouch, che è stato ministro dell’Agricoltura dal 2007 al 2021, finché non è diventato capo del governo. Akhannouch è direttamente legato all’attuale modello economico, perché negli anni Novanta fece parte del gruppo di tecnici incaricati dal re di mettere a punto nuove politiche per lo sviluppo, di fatto ultraliberiste.
I manifestanti chiedono le dimissioni di Akhannouch, che è un protetto della casa reale, perché sta disattendendo le promesse. Si era impegnato a creare 350mila posti di lavoro e a portare la disoccupazione sotto il 9 per cento. È quasi al 13, ma quella giovanile supera il 35 per cento.

Il primo ministro Aziz Akhannouch durante una conferenza stampa del dicembre 2024 (EPA/JALAL MORCHIDI)
Il governo ha gestito male le proteste. Il suo portavoce, Mustapha Baitas, ha peggiorato la situazione andando in tv a sostenere che la disoccupazione fosse colpa della siccità. Era reduce da un’altra figuraccia: in un’ospitata precedente, sempre su media compiacenti, aveva citato un dato sbagliato sullo stipendio minimo nel settore pubblico, esagerandolo.
A parte impegnarsi genericamente al dialogo, Akhannouch non ha fatto concessioni ai manifestanti. Il governo ha annunciato solo un accordo per migliorare la cooperazione tra l’agenzia anticorruzione, la polizia e i servizi segreti interni, raccontandolo come un modo per contrastare la corruzione, e andare quindi incontro alle richieste del movimento che organizza le proteste, che si chiama “GenZ 212” (crasi tra il prefisso internazionale del Marocco e la generazione Z).
Venerdì il re Mohammed VI, che recentemente aveva criticato l’economia «a due velocità» e cioè la stessa tesi sostenuta dai manifestanti, ha parlato alla cerimonia di riapertura dei lavori in parlamento. Ha continuato a restare defilato, nonostante i leader delle proteste gli avessero chiesto d’intervenire sciogliendo il il governo. Pur deludendo le aspettative, ha comunque chiesto al governo di fare riforme per creare posti di lavoro, migliorare i servizi pubblici e dare più attenzioni alle aree rurali.
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