Nella legge di bilancio del governo c’è molta prudenza e poco altro
Mancano soprattutto riforme per migliorare crescita e produttività, segnalano Banca d'Italia e gli altri enti che la stanno analizzando

«Per un paese che ha un debito pubblico elevato come l’Italia, la prudenza nella gestione delle finanze pubbliche è meritoria quanto doverosa. Va coniugata con riforme strutturali che sostengano la crescita e l’innovazione». Con queste due frasi si conclude l’audizione di Banca d’Italia sul Documento programmatico di finanza pubblica di quest’anno, con cui il governo definisce le prime indicazioni su come sarà la prossima legge di bilancio. È una sintesi efficace delle varie analisi che un po’ tutti gli enti istituzionali e di ricerca hanno fatto sugli indirizzi di politica economica manifestati dal governo per i prossimi tre anni, e in particolare per il 2026.
Viene riconosciuto al governo di Giorgia Meloni, e al suo ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il merito di una gestione assai oculata delle finanze pubbliche, con un contenimento della spesa e una riduzione del disavanzo di bilancio che non solo rispettano le norme europee, ma per certi versi seguono una traiettoria persino più restrittiva di quella raccomandata dalla Commissione Europea. Al tempo stesso, però, arrivati ormai alla quarta legge di bilancio di questo governo, diventa evidente anche un altro elemento della politica economica di Meloni: la mancanza pressoché totale di riforme o di misure che favoriscano la produttività e la crescita, e che incentivino gli investimenti privati delle imprese.
Quanto alla prudenza nella gestione dei conti pubblici, i dati sono chiari: il deficit, cioè il disavanzo di bilancio nel singolo anno, che nel 2023 superava il 7,2 per cento in rapporto al prodotto interno lordo (PIL), e che già nel 2024 si era quasi dimezzato, nel 2025 scende ancora fino al 3 per cento, e poi ancora fino al 2,8 per cento l’anno prossimo, confermando dunque l’uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivo aperta nel 2024 dalla Commissione Europea. Il saldo primario, ovvero la differenza tra le entrate e le uscite statali al netto della spesa per gli interessi, nel 2024 era tornato per la prima volta positivo (dello 0,5 per cento del PIL) dal 2019, e sembra destinato a migliorare ancora nel 2025: +0,9 per cento rispetto al PIL.
Il Governo Meloni aumenta ancora la pressione fiscale: andremo al 42.8% (stima Banca d’Italia). Qualcuno nel centrosinistra è disposto a darci una mano per concentrare le nostre proposte su tasse, sicurezza e stipendi anziché continuare a parlare di altro?
— Matteo Renzi (@matteorenzi) October 8, 2025
Sono risultati di una politica di bilancio molto accorta, ma anche di alcune revisioni dei conti: le entrate tributarie e contributive, cioè sostanzialmente quello che lo Stato incassa dalle tasse (soprattutto l’IVA) e dai contributi dei lavoratori, sono state maggiori del previsto, probabilmente anche in virtù di un aumento degli occupati. E questo, che da un lato è senza dubbio una buona notizia per il governo, rappresenta però per Meloni anche un problema politico, nel senso che questo incremento inatteso delle entrate fa aumentare la pressione fiscale, cioè l’indicatore che stabilisce quanto incidono le tasse sul sistema economico nazionale. Secondo stime di Banca d’Italia, nel 2025 la pressione fiscale sarà del 42,8 per cento proprio per via di questo ricalcolo. Quando il governo Meloni si è insediato era al 41,5 per cento, e lei aveva sempre detto di volerla riportare sotto al 40 per cento.
La buona gestione della finanza pubblica, riconosciuta al governo pure dalla Corte dei conti, si riflette in misura più limitata anche sull’andamento del debito pubblico, uno dei più gravi squilibri del sistema economico italiano. Da un valore che nel 2024 era stato del 134,9 per cento in rapporto al PIL, salirà ancora nel 2025 (136,2 per cento) e nel 2026 (137,4 per cento), continuando a scontare peraltro gli effetti negativi del Superbonus, per poi iniziare a scendere di pochissimo a partire dal 2027 (137,3 per cento) e in modo più marcato nel 2028 (136,4 per cento), quando il peso del Superbonus sul bilancio statale si sarà di fatto annullato.
Sono stime a 2 o a 3 anni, quindi da prendere un po’ con le pinze: l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), l’organismo indipendente che si occupa di monitorare la politica economica del governo, le considera per esempio un po’ troppo ottimistiche, e prevede anzi che anche nel 2027 (+1,6 per cento) e nel 2028 (+2,2 per cento) il debito salirà. Senza peraltro contare, come segnala Banca d’Italia, che le spese per la difesa previste dal governo potrebbero incidere sul bilancio pubblico più di quanto è stato stimato.
Questa prudenza nella gestione della finanza pubblica non necessariamente produce risultati positivi, quantomeno nell’immediato, per tutte e tutti. Per esempio la spesa sanitaria si conferma praticamente stabile in rapporto al PIL (dal 6,3 al 6,4 per cento, tra il 2024 e il 2025), un valore che come segnala Banca d’Italia è «contenuto nel confronto con altre grandi economie europee»; i salari reali, cioè calcolati tenendo conto dell’inflazione, a giugno risultavano inferiori del 9 per cento rispetto ai livelli di gennaio 2021, stando a quanto rilevato dall’ISTAT; i redditi da lavoro dipendente, in particolare, sembrano destinati a diminuire sensibilmente, scendendo all’8,7 per cento del PIL nel 2028, secondo quanto evidenziato da Banca d’Italia «uno dei valori più bassi dell’ultimo quarto di secolo».
Ma al di là di questi dati negativi, che hanno molto a che fare con antichi problemi strutturali, ciò che manca nella politica economica del governo sono le riforme in favore della produttività e della crescita. Banca d’Italia, per esempio, sostiene che sarebbe opportuno aumentare «le risorse a favore di investimenti, ricerca e istruzione», tutti aspetti su cui la manovra che il governo si appresta a fare risulta abbastanza inconsistente.
Per il terzo anno consecutivo non ci sono misure in favore delle aziende, sia piccole sia grandi, e non sono stati ancora risolti i grossi problemi che hanno reso sostanzialmente inutilizzabile la misura che il governo aveva pensato di usare in questo senso (Transizione 5.0). Non a caso anche Confindustria – nonostante l’ottimo rapporto personale tra il suo presidente, Emanuele Orsini, e Meloni – è tornata a lamentare una «crescita anemica» e la mancanza di misure per smuovere l’economia e farla crescere.
Il governo demanda la crescita dell’economia a due fattori. Il primo è la crescita dei consumi, cioè la maggiore propensione delle famiglie a spendere. Ma questa crescita, come ha segnalato la presidente dell’UPB Lilia Cavallari, «è piuttosto modesta», e «riflette la prudenza» dei cittadini rispetto a una situazione internazionale incerta e preoccupante. Il resto della crescita, secondo le aspettative di Giorgetti e Meloni, dovrebbero garantirlo gli investimenti, soprattutto quelli legati all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), che i partiti di maggioranza in passato avevano aspramente criticato, prima di andare al governo e trovarsi a doverlo gestire.

Lilia Cavallari, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio in audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato per l’esame del Documento programmatico di finanza pubblica, l’8 ottobre 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
È proprio il PNRR, infatti, a fare sì che il PIL italiano cresca, sia pur di poco, nel 2025 e nel 2026. Ma affidarsi quasi integralmente ai progetti del PNRR per stimolare la crescita è una scelta, oltre che modesta, anche rischiosa: sia perché dal 2026 in poi lo stimolo del Piano andrà progressivamente a esaurirsi, sia perché l’effettiva esecuzione di molti progetti va a rilento.
Anche per questo il governo sta definendo una modifica di una parte del PNRR, che però potrebbe ridurre gli effetti positivi sugli investimenti, e anzi una parte dei quasi 50 miliardi interessati dalla rimodulazione potrebbe andare ad assorbire misure già attive e finanziate con fondi nazionali, oppure essere dirottata verso strumenti finanziari diversi: insomma, gli stimoli alla crescita e alle riforme strutturali vengono ridimensionati, e con questi anche le ricadute positive sul PIL. Cavallari dell’UPB ha esortato governo e parlamento a non ridurre gli investimenti e a impegnarsi al massimo sulle riforme da attuare.
E dunque, in virtù di queste incognite, le già contenute previsioni di crescita del PIL (0,5 per cento nel 2025, 0,7 nei due anni seguenti e 0,8 nel 2028) rischiano di essere addirittura troppo ottimiste. L’UPB le ha validate «pur collocandosi in diversi casi sul limite superiore dell’intervallo», cioè in sostanza le ha ritenute credibili nonostante il ministero dell’Economia abbia voluto prendere, tra le varie disponibili, le stime migliori: insomma ha un po’ stiracchiato le previsioni. In ogni caso, per l’UPB il PIL crescerà un po’ meno del già poco che prevede il governo: circa lo 0,3 in meno all’anno nel 2025 e nel 2026.



