Il Nobel per la Medicina a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi

Per avere scoperto come il sistema immunitario evita di attaccare i tessuti dell'organismo, attraverso meccanismi di tolleranza immunitaria

Le foto di Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi durante l'annuncio (Claudio Bresciani/TT News Agency via AP)
Le foto di Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi durante l'annuncio (Claudio Bresciani/TT News Agency via AP)
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Il Premio Nobel per la Medicina è stato assegnato oggi a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi per i loro studi sul sistema immunitario, in particolare sulla sua capacità di non attaccare i tessuti dell’organismo, attraverso meccanismi di tolleranza immunitaria.

Sakaguchi trent’anni fa identificò un nuovo tipo di cellule immunitarie, le cellule T regolatorie, che proteggono l’organismo dalle malattie autoimmuni, superando la visione allora dominante che la tolleranza derivasse solo dall’eliminazione di cellule pericolose nel timo, l’organo dove maturano e si selezionano i linfociti T, fondamentali per la difesa dell’organismo. Nel 2001, Brunkow e Ramsdell scoprirono il gene Foxp3, la cui mutazione causa gravi malattie autoimmuni nei topi e negli esseri umani. Due anni dopo, Sakaguchi dimostrò che Foxp3 regola lo sviluppo delle cellule T regolatorie. Queste scoperte hanno trasformato la comprensione del sistema immunitario e aperto nuove vie sperimentali terapeutiche contro cancro, malattie autoimmuni e migliorato le tecniche per ridurre il rigetto nei trapianti.

Quello immunitario è uno dei sistemi più complessi e articolati del nostro organismo. In ogni istante protegge l’organismo dalle numerose sostanze con cui entriamo in contatto quotidianamente, compresi i virus e i batteri, mostrando di avere una grande capacità nel distinguere questi patogeni dalle cellule del corpo che sono invece innocue. Non è un lavoro semplice, perché i patogeni hanno forme molto diverse tra loro e riescono a mimetizzarsi bene, per esempio assumendo caratteristiche molto simili a quelle delle cellule umane.

I linfociti T helper sono cellule che si occupano di tenere costantemente sotto controllo l’organismo e hanno il compito di scoprire i patogeni, avvisando poi le cellule immunitarie che si occupano invece di attaccarli e distruggerli che si chiamano T killer. L’intervento riguarda spesso le cellule, che sono state infettate, ma in altri casi può anche riguardare un attacco verso cellule tumorali, che hanno iniziato a comportarsi in modi strani e pericolosi per il resto dell’organismo. Ci sono poi diversi altri protagonisti del sistema immunitario, ma le scoperte che sono valse il Nobel per la Medicina di quest’anno hanno riguardato in particolare le T.

Ogni cellula T ha sulla propria membrana delle particolari proteine (recettori) che servono per esaminare le altre cellule e capire se al loro interno sta avvenendo qualcosa di insolito. I recettori si presentano in forme molto diverse tra loro e sono il frutto di molte combinazioni casuali di tanti geni, quindi ogni organismo può produrre una quantità enorme di recettori diversi (potenzialmente un milione di miliardi). Questa grande diversità fa sì che ci siano quasi sempre cellule T in grado di riconoscere un patogeno, anche tra quelli che l’organismo non aveva mai incontrato prima. C’è però un problema: questa grandissima varietà fa sì che nel sistema immunitario si creino anche recettori delle cellule T che possono legarsi ai tessuti stessi dell’organismo, cosa che potrebbe portare a una reazione anche contro le cellule sane.

Per diverso tempo ci si chiese come questo processo fosse tenuto sotto controllo e non degenerasse, causando gravi danni all’organismo. Negli anni Ottanta alcuni gruppi di ricerca notarono che, durante il loro processo di maturazione nel timo, le cellule T vengono messe alla prova e vengono eliminate quelle con recettori compatibili con le cellule del corpo, in un processo che fu chiamato “tolleranza centrale”. Non era però chiaro che cosa accadesse alle cellule T che riuscivano a sfuggire a quel test e quali fossero quindi altri meccanismi di soppressione, per evitare che queste facessero danni in giro per l’organismo.

In alcuni esperimenti, un gruppo di ricerca aveva rimosso il timo da topi appena nati, ipotizzando che in questo modo si sviluppassero meno cellule T e i topi avessero un sistema immunitario più debole. Con loro sorpresa, i ricercatori notarono che se l’asportazione avveniva a tre giorni dalla nascita, il sistema immunitario finiva fuori controllo e causava diverse malattie autoimmuni dovute proprio alla sua eccessiva risposta contro l’organismo stesso.

All’inizio degli anni Ottanta, Shimon Sakaguchi prelevò delle cellule T da topi con il timo e le inserì in altri topi, geneticamente identici ai primi, ma privati di quell’organo. In quel caso, notò Sakaguchi, i topi non sviluppavano malattie autoimmuni, cosa che suggeriva che il sistema immunitario avesse una qualche altra forma di protezione per tenere sotto controllo le cellule T, evitando che causassero danni all’organismo.

A seconda delle proteine sulla loro superficie, i ricercatori possono riconoscere una cellula T helper (che porta la proteina CD4) da quelle killer (che hanno invece una proteina CD8). Sakaguchi nel suo esperimento aveva usato cellule con la proteina CD4, convinto quindi che si trattasse di cellule T helper, che come abbiamo visto sono quelle che di solito danno l’allarme per ricevere assistenza dal resto del sistema immunitario. Nei suoi test sui topi era però successo il contrario. Questo portò Sakaguchi a ipotizzare che ci potesse essere un altro tipo di cellula T, che portava con sé la proteina CD4.

Da quell’intuizione nacque una ricerca che trent’anni fa portò a ipotizzare l’esistenza di cellule T regolatorie, che hanno il compito di tenere sotto controllo alcuni dei meccanismi più distruttivi del sistema immunitario oltre a ciò che già avviene nel timo. L’ipotesi di Sakaguchi era affascinante, ma servivano prove più solide e convincenti.

Negli anni Novanta, Mary Brunkow e Fred Ramsdell stavano studiando una particolare mutazione genetica nei topi, che portava i topi a vivere solo qualche settimana mostrando sintomi come pelle squamosa, milza e linfonodi ingrossati. Questa linea di topi, chiamata “scurfy”, suggeriva che in certe condizioni si sviluppasse una mutazione che faceva finire fuori controllo le cellule T, che attaccavano i tessuti sani dei topi causando quei sintomi.

Dopo anni di ricerche, Brunkow e Ramsdell riuscirono a identificare il gene responsabile del fenomeno e lo chiamarono Foxp3, dalla famiglia di geni FOX noti per essere coinvolti nei meccanismi che regolano lo sviluppo delle cellule e l’attività di altri geni. Mettendo a confronto Foxp3 con le informazioni genetiche dell’organismo umano, i due ricercatori notarono la presenza di una variante umana che era coinvolta in una rara malattia autoimmune, la cosiddetta “sindrome IPEX”. In questo modo scoprirono che il gene aveva un ruolo nella gestione delle cellule T regolatorie, quelle ipotizzate da Sakaguchi.

Negli anni seguenti, fu dimostrato infatti che il gene Foxp3 controlla lo sviluppo delle cellule T regolatorie, e che queste impediscono ad altre cellule T di attaccare per errore i tessuti dell’organismo. Fu quindi confermata l’esistenza di una tolleranza immunitaria periferica, che si unisce a quella centrale del timo, per ridurre i rischi di attacchi verso cellule sane. Le cellule T regolatorie hanno inoltre un ruolo importante nel far ridurre l’attività del sistema immunitario, quando viene eliminato un pericolo.

La scoperta di Sakaguchi e la conferma grazie al lavoro di Brunkow e Ramsdell sono state fondamentali non solo per scoprire una parte importante del funzionamento del sistema immunitario, sul quale restano ancora molti aspetti da chiarire, ma anche per la ricerca di nuovi trattamenti in ambito medico. Si è per esempio notato che i tumori possono attirare grandi quantità di cellule T regolatorie in modo da nascondersi e proteggersi dal sistema immunitario. Un approccio della ricerca riguarda quindi lo sviluppo di sistemi per ridurre la presenza delle cellule T regolatorie in modo che il sistema immunitario possa “vedere” i tumori e intervenire per distruggerli.

Un altro ambito di ricerca riguarda le terapie contro le malattie autoimmuni, dove l’obiettivo è invece quello di far produrre più cellule T regolatorie, in modo da tenere sotto controllo la risposta immunitaria contro i tessuti sani. Molti esperimenti si sono concentrati in questi anni sull’interleuchina-2, una sostanza nota per stimolare la produzione di cellule T regolatorie, ma occorre bilanciare bene la loro produzione per evitare che aumentino i rischi nel caso in cui si sviluppino tumori.

Shimon Sakaguchi è nato nel 1951 e ha conseguito un dottorato nel 1983 all’Università di Kyoto in Giappone. È docente di immunologia all’Università di Osaka in Giappone.
Mary E. Brunkow è nata nel 1961 e ha conseguito un dottorato alla Princeton University negli Stati Uniti, lavora presso l’Institute for Systems Biology di Seattle.
Fred Ramsdell è nato nel 1960 e ha conseguito un dottorato nel 1987 presso l’Università della California a Los Angeles, lavora come consulente scientifico dell’azienda Sonoma Biotherapeutics di San Francisco.