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  • Lunedì 6 ottobre 2025

In Cisgiordania i palestinesi-americani sono un bersaglio degli israeliani

E avere il passaporto statunitense non conta più, raccontano gli abitanti di un paese dove è stato ucciso un 14enne del New Jersey

di Daniele Raineri, foto di Gabriele Micalizzi

Una foto di Amir Muhammad Rabi, 14enne ucciso poco fuori Turmus Ayya (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Una foto di Amir Muhammad Rabi, 14enne ucciso poco fuori Turmus Ayya (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
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Turmus Ayya è un paese nel centro della Cisgiordania, le sue case e le sue villette sono curate e ben distanziate e il colpo d’occhio è magnifico quando si passa dalla strada numero 60 che scorre lì vicino. Si nota la differenza con gli altri paesotti, più dimessi, nella stessa regione.

Turmus Ayya (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Molti degli abitanti di Turmus Ayya sono imprenditori palestinesi che hanno un passaporto americano e attività avviate negli Stati Uniti, insieme con le loro famiglie. Sono più dell’80 per cento, su un totale di circa 2.400 persone. Poco più in alto di Turmus Ayya, in cima a una collina, c’è la colonia israeliana di Shilo.

Jum’a Shalabi, di 39 anni, è un imprenditore palestinese che passa molto tempo a Tampa, in Florida, ed è tornato in Cisgiordania settanta giorni fa. Ha quindici negozi di mobili negli Stati Uniti e importa anche dall’Italia. Spiega che gran parte della comunità di Turmus Ayya quando è negli Stati Uniti si concentra a Chicago. «Circa il 40 per cento della popolazione vive lì, un altro 20–25 per cento tra New Jersey, New York e Maryland. Il resto è sparpagliato».

Quando i figli compiono sette-otto anni, i padri palestinesi negli Stati Uniti li mandano dai parenti in Cisgiordania, a imparare l’arabo e a rafforzare la loro identità palestinese e spesso tornano anche loro. Un tempo lo facevano anche perché l’ambiente era più sicuro rispetto alle città statunitensi. «Qui c’è più vita all’aperto e c’è un senso di comunità. Quando ero bambino potevo uscire fino a tarda sera, i miei genitori non si preoccupavano: sapevano che se non ero con loro ero a casa di qualche parente», dice Shalabi.

Jum’a Shalabi in posa con il figlio di 13 anni (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Come nel resto della Cisgiordania, gli attacchi dei coloni e la pressione contro i palestinesi per mandarli via sono aumentati. Ma qui un po’ di più. «Oggi non lascerei mio figlio andare neppure al supermercato, perché ci sono le colonie. Due anni fa, qui vicino, un ragazzo con passaporto americano è stato ucciso. – aggiunge Shalabi – Hanno bruciato le auto di mia madre e di mio fratello, hanno spaccato i vetri di casa. Io ero negli Stati Uniti e ho seguito tutto da lontano».

La notte prima di questa intervista i soldati israeliani hanno fatto un raid a Turmus Ayya. Hanno fatto irruzione anche a casa di Shalabi e sono arrivati dentro alla sua camera da letto senza bussare. Ha controllato i filmati delle sue telecamere di sicurezza: hanno spaccato i vetri e sfondato la porta blindata. I soldati sono entrati anche in una cinquantina di altre case del paese, quelle che fuori esponevano la bandiera degli Stati Uniti.

Una casa con bandiera statunitense (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

«Ieri c’erano più di duecento soldati. Ufficialmente cercavano cose sospette, ma non hanno trovato nulla. Penso che si trattasse di un addestramento di prova per operazioni future. Ho 39 anni e non avevo mai visto nulla di simile. Se sai spiegarmi tu perché lo hanno fatto, faccio una donazione di un milione di dollari al tuo giornale», dice Shalabi.

In questi mesi i coloni di Shilo sono scesi dalla collina per tormentare i palestinesi-americani di Turmus Ayya con più intensità rispetto agli anni precedenti, perché sono convinti che sarà più facile mandarli via rispetto agli altri palestinesi. «Ce lo dicono apertamente: se vi sentite più sicuri, tornate in America. Per loro basta che prendiamo un volo ed è fatta». Inoltre i coloni hanno un incentivo in più: se i palestinesi abbandonassero Turmus Ayya lascerebbero case molto belle.

Una casa di Turmus Ayya (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Avere la cittadinanza americana non è una protezione, dice Shalabi. «Un tempo sì, oggi no. L’ho visto con i miei occhi: un soldato con l’accento di Brooklyn ha detto a un mio amico di infilarsi il passaporto americano nel culo. Non ha alcun peso. Eppure qui ci sono famiglie che negli Stati Uniti pagano centinaia di migliaia di dollari di tasse ogni anno, con attività grandi e consolidate».

L’imprenditore palestinese ammette che il piano dei coloni e la pressione dell’esercito israeliano stanno funzionando: «Basta guardarsi intorno: metà delle case in questo quartiere sono vuote. I miei zii e i miei cugini vengono soltanto d’estate, io sono l’unico residente fisso». Ci tiene a dire che Turmus Ayya è sempre stato un paese tranquillo: «Non ci sono miliziani, né legami con i partiti. È un posto normale, dove la gente pensa a lavorare e a godersi le estati tra Ramallah, Gerusalemme e Haifa».

L’entrata di Turmus Ayya (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Trasferire i figli per qualche tempo dagli Stati Uniti alla Cisgiordania è una cosa che «può andare in due direzioni: o i bambini subiscono un trauma che li porta a rifiutare per sempre la Palestina, oppure capiscono l’importanza di resistere e di mantenere i legami, come hanno fatto i loro genitori», dice Shalabi. «Ma conosco famiglie che sono tornate negli Stati Uniti dopo che i figli avevano subito violenze dai militari, e non sono più rientrate», aggiunge.

Il 6 aprile un ragazzo palestinese con passaporto americano che si chiamava Amir Muhammad Rabi è stato ucciso poco fuori Turmus Ayya da proiettili sparati dai soldati o dai coloni, poco prima di compiere quindici anni. L’esercito sostiene che stesse lanciando sassi, i due amici che erano con lui dicono che stavano soltanto raccogliendo mandorle.

Il padre, Muhammad Rabi, racconta una storia comune a molti a Turmus Ayya: «Viviamo nel New Jersey, nel 2013 ci siamo trasferiti in Palestina per la lingua e la cultura. I due figli maggiori sono in New Jersey a lavorare, qui ero rimasto con mia moglie e con Amir per fargli finire le superiori. Voleva diventare medico e stava avviando un piccolo business come i fratelli che lavorano in partnership con Amazon: aveva scelto una macchina per lo zucchero filato da brandizzare col suo nome. In New Jersey avevamo aperto un account a suo nome (formalmente intestato alla madre perché lui era minorenne): ogni giorno controllava i documenti per l’attivazione, era entusiasta».

Muhammad Rabi davanti a un poster del figlio (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Amir «si sentiva protetto dal passaporto americano», spiega il padre. In paese, con gli amici, usciva spesso «verso i campi, oltre l’ultima casa: era la stagione delle mandorle verdi; giocavano, si arrampicavano, seguivano anche una cagna vicina al parto per vedere i cuccioli». Quella fascia è «piena di case e frequentata dai ragazzi», ma «coloni e soldati non vogliono vedere nessuno oltre il margine di Turmus Ayya: appena esci, diventi un bersaglio».

«Hanno visto i ragazzi giocare e hanno aperto il fuoco. La telecamera di sicurezza ha registrato i colpi: 36 spari iniziali, da più armi, perché si riconoscono suoni diversi, da fucile automatico e da arma corta», aggiunge il padre del 14enne palestinese ucciso. Due dei ragazzi che erano con lui, feriti, sono riusciti ad allontanarsi aiutandosi. «Amir, credo, era in condizioni gravissime o già a terra. Dopo uno-due minuti i soldati attraversano la strada, lo trovano disteso e gli sparano ancora, a distanza zero: altri 10 colpi. È un’esecuzione». Il referto, dice il padre, parla di «14 ferite d’arma da fuoco: al torace, al braccio, al collo».

Fotografie di Amir Muhammad Rabi (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Muhammad è stato avvisato da un amico. «Controllo la posizione di Amir su Life360 (è una app di localizzazione) e con l’AirTag; intanto chiamo l’ambasciata americana. Passano due-tre ore prima di avere notizie: da parte palestinese mi dicono che Amir è martire. L’esercito ha preso il corpo. Ci chiamano al campo di Huwara per il ritiro: arriva in ambulanza, in un sacco blu. Lo apro per riconoscerlo: era nudo, coperto di sangue, crivellato».

Una strada di Turmus Ayya (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)

Anche Muhammad dice che «l’ambasciata americana qui non ha potere. Una volta, a un checkpoint verso l’aeroporto Ben Gurion, col passaporto americano in mano mi hanno detto: “Non passi”. La funzionaria dell’ambasciata era al telefono con me; il soldato ha minacciato di arrestarmi. Lei ha detto che non poteva fare nulla». Dopo l’omicidio del figlio, il governatore del New Jersey e i senatori lo hanno chiamato: «Mi hanno chiesto se volessi presentare un reclamo. Hanno mandato lettere alla Casa Bianca e all’FBI. Nessuna risposta finora».

«Qualcuno mi chiede perché non scappo. Dove dovrei andare? Questa è la mia terra. Ora Amir è sepolto qui: non lo lascio. Ogni venerdì vado alla sua tomba e gli parlo».