Si può essere amici di uno stronzo?
Non sempre dipende da una scelta deliberata e consapevole, e non per forza dice qualcosa della nostra moralità

Aaron James, professore di filosofia all’università della California Irvine, diede una definizione dell’essere stronzi in un suo libro del 2012. La caratteristica fondamentale di chi lo è, scrisse, è appropriarsi sistematicamente di privilegi indebiti nelle relazioni con gli altri. Lo fa sulla base di un radicato e spesso inconscio senso di superiorità morale, che lo rende indifferente alle eventuali recriminazioni di chi invece quei privilegi, non sentendosi migliore degli altri, non li reclama.
Stando a questa definizione, viene difficile immaginare che persone che si rifiutano o sono incapaci di riconoscere che altri intorno a loro abbiano lo stesso status morale possano avere degli amici. Eppure è verosimile che anche le persone più irritanti – quelle che superano in coda, parlano al telefono ad alta voce in treno, parcheggiano occupando due posti o rimproverano sgarbatamente il cameriere per un’ordinazione sbagliata – qualche amico ce l’abbiano.
Per capire come sia possibile è utile tenere a mente innanzitutto che quelle persone la pensano probabilmente in modo diverso da noi e che quindi, almeno in qualche caso, non credono di fare qualcosa di sbagliato, anzi. Nel manuale di Epitteto, un trattato di etica stoica scritto dal suo allievo Arriano di Nicomedia, Epitteto sostiene che se qualcuno si comporta in modo irrispettoso nei nostri confronti lo fa nella convinzione di essere nel giusto. Nelle sue azioni è guidato «da ciò che appare a lui», non da ciò che appare a noi, e non potrebbe essere altrimenti.
A volte, tra l’altro, se comportarsi in un certo modo sia o non sia da stronzi non è chiaro nemmeno a noi stessi. Per alcuni lo è, per esempio, non attendere in ascensore per la fretta l’arrivo di un’altra persona che sta per prenderlo. Per altri non lo è rimproverare un bambino davanti ai suoi genitori perché tocca un gatto malato e non suo nella sala d’attesa del veterinario. Domande del genere animano lunghe discussioni su uno dei più popolari e longevi forum su Reddit, Am I the Asshole? (“Sono io lo stronzo?”), peraltro oggetto di studi di filosofia e psicologia morale.
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Alcune persone credono che essere amici di uno stronzo o di una stronza sia impossibile perché implicherebbe una sorta di complicità e sarebbe quindi moralmente compromettente. Yiran Hua, ricercatrice della Brown University a Providence, nel Rhode Island, ha contestato questa convinzione in uno studio pubblicato a marzo. Secondo lei deriva da un presupposto non sempre fondato: l’idea che gli amici tendano ad assomigliarsi, e che quindi essere amici di una brutta persona induca a esserlo.
Su un presupposto simile sembrano implicitamente basati, per esempio, diversi articoli recenti che hanno cercato di ricostruire le molte relazioni dell’imprenditore multimiliardario Jeffrey Epstein, arrestato nel 2019 con l’accusa di aver sfruttato sessualmente decine di minorenni e poi morto suicida in carcere. Ma vale anche per personaggi ed eventi storici: se scoprissimo che Ivan il Terribile aveva un caro amico, dice Hua, non ne avremmo un giudizio morale positivo, in mancanza di altre informazioni sul suo conto.
Ma ci sono anche esempi che mettono in discussione questo presupposto. Il musicista jazz Daryl Davis è anche noto per essere un attivista nero che da oltre quarant’anni ha rapporti di amicizia con ex capi e membri del Ku Klux Klan, alcuni dei quali convinti proprio dall’amicizia con lui a lasciare l’organizzazione. La sua storia è raccontata nel documentario del 2016 Accidental Courtesy.
Davis era entrato in contatto con loro nel 1983, mentre suonava musica country in un locale frequentato da bianchi a Frederick, nel Maryland. Un cliente, che poi avrebbe scoperto essere un membro del Ku Klux Klan, gli si avvicinò e gli disse che era la prima volta che sentiva «un nero suonare bene come Jerry Lee Lewis». Davis gli rispose che Lewis era un suo amico e che aveva imparato a suonare da musicisti neri di blues.

Daryl Davis mostra una divisa del Ku Klux Klan, tra le molte a lui consegnate da ex membri dell’organizzazione nel corso degli anni, durante un incontro a un campo estivo a Sterling, in Virginia, il 31 luglio 2019 (Andrew Mangum/The New York Times)
Secondo Hua essere buoni amici di brutte persone non significa per forza essere brutte persone. Possiamo provare attrazione e ammirazione per alcuni aspetti di un buon amico, anche intimo, ed essere indifferenti o persino provare repulsione per altri suoi aspetti. Una ragione possibile, secondo lei, è che facciamo esperienza del carattere morale delle persone in modo frammentato. «Un codardo può essere compassionevole; una persona modesta può essere crudele; una persona può aver commesso uno stupro ma essere anche disposta a rischiare la vita per uno sconosciuto».
Si può diventare amici di un uomo conosciuto in un centro di volontariato, per esempio, e poi scoprire che maltratta sua moglie. Prenderne coscienza, scrive Hua, non significa essere automaticamente attratti da quell’aspetto o subirne passivamente l’influenza. Se siamo amici di una persona di cui conosciamo la scarsa capacità di programmare gli itinerari di viaggio, per fare un esempio, possiamo sempre ricontrollare per sicurezza l’itinerario prima di un viaggio con lui o lei. Sapere con certezza che le sue convinzioni sono sbagliate – come nel caso di Davis con i membri del Klan – riduce anzi di molto il rischio di essere influenzati da quelle convinzioni.
Essere amici, inoltre, non implica essere compiacenti. Se le amicizie sono considerate necessarie nella vita delle persone, anzi, è anche perché a volte permettono alle persone di uscire da situazioni problematiche o anche solo di cambiare idea, ispirate o spronate a farlo da qualcuno a loro molto vicino, appunto.
Se Davis si fosse imposto di non frequentare membri del Ku Klux Klan per ovvie divergenze morali, per esempio, alcuni di loro che poi invece cambiarono idea non lo avrebbero conosciuto. Magari avrebbero intensificato i rapporti con altri che la pensavano come loro. Il che non significa che bisogna essere amici di qualcuno solo per il desiderio o con l’obiettivo di salvarlo, dato che un rapporto del genere diventerebbe non sincero e probabilmente insostenibile.
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L’idea che essere amici di una brutta persona dica qualcosa di noi potrebbe derivare anche da un’altra convinzione molto diffusa, e cioè che le amicizie siano sempre frutto di scelte interamente volontarie. Secondo un noto luogo comune, non possiamo sceglierci i parenti ma possiamo sceglierci gli amici: chi è amico di uno stronzo, di conseguenza, sceglie di esserlo. Che però è una descrizione riduttiva, e vera solo in parte, delle molte e varie relazioni di amicizia che si creano, si mantengono e finiscono nel corso della vita.
Molte cose nelle amicizie dipendono da fattori variabili e non del tutto controllabili. A volte si diventa amici frequentando le stesse scuole, lo stesso quartiere o gli stessi locali, per esempio, e anche questo può bastare a rendere le amicizie durature: un’abitudine, più che una scelta quotidiana e consapevole.
Nel 2024 la scrittrice statunitense di origine cinese Weike Wang condivise in un articolo sul New Yorker alcune riflessioni sulla sua esperienza di figlia unica di immigrati i cui parenti erano rimasti tutti in Cina. Scrisse che da bambina, dato che negli Stati Uniti non aveva né fratelli, né sorelle, né cugini, era molto preoccupata di farsi degli amici per avere «alleati» e imparare a parlare inglese. «La presunta libertà di scelta degli amici ha un limite e, visto quanto le mie scelte sono influenzate dal mio background, dalla mia famiglia e dalla mia educazione, mi chiedo se siano davvero scelte», scrisse Wang.
Fece un altro esempio: spesso per le persone che sono appena diventate genitori diventa anche difficile mantenere relazioni con i loro amici senza figli. «Abito in un palazzo in cui i genitori sono amici perché i loro figli sono amici», scrisse Wang, chiedendosi se lo sarebbero stati ugualmente senza i figli, e se gli amici siano autentici amici quando la loro scelta di esserlo «non è del tutto individuale». Scrisse che lei e suo marito non hanno figli ma hanno un cane, e sono diventati amici di un’altra coppia del palazzo che ne ha uno. In questo modo, quando sono fuori città, possono badare ai cani a vicenda.
«Pensavo che la nostra amicizia con questa coppia fosse di convenienza, ma ora non la penso più così. A volte si hanno amici intimi perché vivono vicini e hanno cani compatibili», scrisse Wang.
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