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  • Martedì 30 settembre 2025

Sul clima l’Unione Europea è sempre più indecisa

Fino a pochi anni fa aveva piani ambiziosi, ora fatica a definire obiettivi comuni e le politiche ambientali sono meno popolari tra i paesi membri

Il parco nazionale di Doñana, nel sudovest della Spagna, nel 2022 (AP Photo/Bernat Armangue)
Il parco nazionale di Doñana, nel sudovest della Spagna, nel 2022 (AP Photo/Bernat Armangue)
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Nella scorsa legislatura europea, quella tra il 2019 e il 2024, una delle questioni su cui il Parlamento e la Commissione Europea si spesero di più fu il contrasto al cambiamento climatico: venne approvato un piano ampio e molto ambizioso, diventato noto come Green Deal, che prevedeva molte misure per ridurre le emissioni inquinanti. Oggi quel piano è stato parecchio ridimensionato, e in generale l’interesse per il cambiamento climatico da parte della politica europea sembra diminuito o comunque più limitato rispetto a qualche anno fa.

Lo si è visto anche all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si è appena conclusa a New York: l’Unione avrebbe dovuto presentare i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti entro il 2035, ma non l’ha fatto perché non è stato trovato per tempo un accordo tra i paesi membri. Al contrario la Cina, il paese che produce più emissioni inquinanti al mondo e che è sempre stato cauto sull’adozione di politiche ambientali, si è impegnata per la prima volta a ridurre le proprie emissioni.

L’effetto di queste titubanze è che l’Unione Europea, che fino a poco tempo fa era vista come molto impegnata nel contrasto al riscaldamento globale – molti nel 2019 sostenevano che stesse esercitando una «climate leadership», un ruolo di guida internazionale – sta perdendo questa rilevanza. È un fatto che ha conseguenze importanti: se l’Unione Europea insisterà meno sulle politiche ambientali in futuro, è probabile che anche altri organismi internazionali o paesi extra-europei siano meno motivati a farlo. Lo sforzo globale per contenere il cambiamento climatico, quindi, ne risentirà pesantemente.

Il discorso della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen alle Nazioni Unite, il 24 settembre. Nel suo post von der Leyen fa ancora riferimento alla «leadership climatica» dell’Unione Europea (cioè all’idea che l’Unione dovrebbe approvare politiche ambientaliste molto avanzate e, in un certo senso, essere d’esempio per gli altri paesi del mondo).

La ragione principale di questo cambiamento è che, in sostanza, il mondo di oggi non è più quello del 2019. Quell’anno in molti paesi dell’Unione Europea c’erano state proteste ricorrenti e molto partecipate per spingere i governi a fare di più contro il riscaldamento globale, guidate dalle associazioni Fridays for Future. Alle elezioni europee del 2019 i partiti ecologisti erano andati benissimo, e questo aveva motivato la Commissione ad adottare politiche ambientali incisive.

– Leggi anche: Il Green Deal europeo non è più quello di una volta

Da allora ci sono stati diversi eventi sconvolgenti come la pandemia di Covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina, e in quasi tutti i paesi dell’Unione a seguito di tutto questo l’economia è entrata in crisi: i governi hanno dovuto aumentare la spesa pubblica e avuto meno risorse da destinare alla lotta al cambiamento climatico. Molti hanno anche aumentato la spesa militare per difendersi dall’aggressività della Russia, riducendo ulteriormente i fondi destinati ad altre cose, come le politiche ambientaliste.

Eppure il cambiamento climatico non ha rallentato. I suoi effetti sono sempre più evidenti anche in Europa, oltre al resto del mondo: la temperatura media è aumentata e gli eventi climatici estremi come incendi e alluvioni sono diventati più frequenti. Oggi l’Unione Europea è in linea con il proprio obiettivo di ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030 rispetto al 1990, proprio grazie alle norme a difesa dell’ambiente promosse qualche anno fa. Secondo diversi esperti però le politiche approvate finora dai governi di tutto il mondo non sono sufficienti a contenere l’aumento delle temperature entro i limiti stabiliti dall’Accordo di Parigi del 2015, a cui partecipano moltissimi paesi.

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen durante la presentazione delle misure contenute nel Green Deal, nel 2021

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen durante la presentazione delle misure contenute nel Green Deal, nel 2021 (AP/Valeria Mongelli)

Gli Accordi di Parigi impegnano i paesi firmatari a mantenere l’innalzamento delle temperature entro i 2 °C (e possibilmente entro 1,5 °C) per contenere gli effetti negativi del riscaldamento globale. Ogni cinque anni gli stati che partecipano all’accordo devono rivedere i propri piani per diminuire le emissioni e comunicare alle Nazioni Unite i nuovi obiettivi: l’attuale periodo di programmazione finisce nel 2030, e l’Unione Europea è responsabile di fissare i nuovi limiti per i paesi che ne fanno parte. Come dicevamo, finora non ci è riuscita.

Durante l’Assemblea generale diversi paesi hanno presentato gli obiettivi per il 2035, tra cui il Brasile e appunto la Cina. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha detto che l’Unione si impegnerà a ridurre le emissioni tra il 66,25 e il 72,5 per cento. Sono però annunci che non hanno valore vincolante, dato che le proposte devono essere approvate dal Parlamento Europeo e dagli Stati membri.

Non è un passaggio scontato: i partiti di destra ed estrema destra, i più critici verso le politiche ambientali, sono cresciuti molto al Parlamento Europeo e nei parlamenti nazionali, praticamente dappertutto. Il principale partito europeo di centrodestra, il Partito Popolare Europeo, ha posizioni critiche sull’argomento e anche i governi di importanti paesi membri, come la Germania, l’Italia e la Francia, sono diventati più restii a sostenerle.

A luglio la Commissione Europea ha approvato una proposta che impegnerebbe gli stati a ridurre le emissioni del 90 per cento entro il 2040. Non contiene però obiettivi specifici per il 2035, quelli che sarebbe più urgente fissare, anche perché sono i più vicini e determinerebbero le scelte politiche degli stati membri. Per riuscire a rendere accettabile questo limite, la Commissione ha dovuto anche introdurre la possibilità per i governi di compensare la mancata riduzione delle emissioni in modi alternativi: per esempio, ricorrendo all’acquisto dei “crediti di carbonio”, un sistema che molti giudicano inaffidabile.

– Leggi anche: Il sistema dei crediti di carbonio è da rifare