Tutto il progresso tecnologico è anche progresso militare?
Le proteste contro le collaborazioni con Israele in ambito accademico stanno alimentando un dibattito sul cosiddetto “dual use”

Martedì il senato accademico dell’università di Bologna ha approvato una mozione che impegna l’ateneo a interrompere ogni collaborazione con università, istituzioni e aziende israeliane. Fanno eccezione, però, i progetti di ricerca già avviati e che non hanno applicazioni militari, o, come è stato scritto, «non ascrivibili al dual use». È un’espressione a volte tradotta come “duplice uso”, utilizzata da decenni per definire una categoria di prodotti, tecnologie e servizi che possono avere applicazioni sia in ambito civile che militare. Quindi una categoria molto ampia, che va dai sistemi di crittografia al GPS, dai droni all’intelligenza artificiale.
Le tecnologie dual use sono da tempo al centro di un dibattito complesso, reso più attuale dalle manifestazioni recenti di solidarietà per la popolazione palestinese e dalla crescente opposizione ai rapporti del governo italiano con Israele. In pratica a università ed enti di ricerca italiani viene contestato di fare ricerca applicata senza porsi particolari scrupoli riguardo all’eventuale utilizzo dei risultati in ambito militare.
A metà settembre il corso di un docente israeliano ospite del Politecnico di Torino, Pini Zorea, era stato sospeso dopo le proteste di un gruppo di studenti dei collettivi pro Palestina. Erano entrati in aula reggendo uno striscione con la scritta «boycott facial recognition» (“boicottare il riconoscimento facciale”) e avevano interrotto la lezione del docente per contestare il contenuto del suo corso: Princìpi e tecnologie di elaborazione di immagini digitali. La sospensione era stata decisa per via di alcuni successivi commenti del docente, giudicati «inappropriati rispetto al mandato didattico» dal rettore Stefano Corgnati. Il rettore però aveva spiegato anche che il corso era solo sulle tecniche di base, e che «il riconoscimento facciale lo usiamo tutti i giorni per sbloccare il telefono» oltre che in contesti di spionaggio e di guerra.
Definire quali tecnologie abbiano un duplice uso e quali no è un’operazione molto complicata, per diverse ragioni, oltre che soggetta a cambiamenti nel tempo. Quando questa nozione cominciò a diffondersi più estesamente, dopo l’uso della prima bomba atomica nella Seconda guerra mondiale, era utilizzata soprattutto in riferimento alle scoperte nella fisica nucleare. La ricerca in questo campo può portare e ha portato infatti alla produzione sia di energia utilizzabile in ambito civile, sia di armi.
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Nel tempo la definizione è stata ampliata per includere altri settori le cui tecnologie possono essere utilizzate tra le altre cose anche per scopi militari o terroristici, o per produrre armi di distruzione di massa. Una delle attuali definizioni di riferimento, per quanto vaga, è contenuta nel regolamento UE 2021/821, sull’esportazione dei prodotti a duplice uso: «prodotti, inclusi i software e le tecnologie, che possono avere un utilizzo sia civile sia militare», tra cui «prodotti che possono essere impiegati per la progettazione, lo sviluppo, la produzione o l’uso di armi nucleari, chimiche o biologiche o dei loro vettori».

Un drone della società statunitense Zipline consegna attrezzature sanitarie in un ospedale nel distretto di Kayonza, in Ruanda, il 30 giugno 2022 (Luke Dray/Getty Images)
Secondo Gaetano Salina, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), un rischio presente nel dibattito sul dual use è di far sembrare una questione di definizioni e di distinzioni tecniche una questione che coinvolge invece scelte etiche e fattori umani e culturali. «È chiaro che nel caso della produzione di munizioni e armi, esclusa forse la caccia, l’applicazione è quella», chiarisce, «ma per molte altre attività di ricerca e sviluppo non sempre è facile sapere a cosa porteranno».
All’aspetto etico del dibattito faceva riferimento anche la commissione per l’etica e l’integrità nella ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) in un parere sul dual use del 2016. Molti progressi tecnologici creano opportunità di miglioramento della salute e del benessere umani, ma allo stesso tempo comportano la possibilità di produrre danni e minacce alla sicurezza. «Il dual use non è una caratteristica intrinseca, determinata solo da proprietà fattuali: un artefatto, una tecnologia o un prodotto naturale sono suscettibili di dual use solo grazie alla combinazione tra proprietà fattuali e intenzioni», scrisse la commissione.
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Diversi esempi storici mostrano come lo sviluppo delle armi non sempre sia il risultato diretto di una ricerca di applicazioni militari. Viene spesso citato il caso di un diserbante sviluppato negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta dal botanico Arthur Galston, e a lungo utilizzato nell’agricoltura industriale. Grandi quantità della stessa sostanza, con il nome in codice “agente arancio”, furono poi utilizzate dall’esercito statunitense durante la Guerra in Vietnam per provocare gravi danni ambientali e umani. Ha una storia simile anche l’acido cianidrico, utilizzato negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento come pesticida, e diventato poi tra le altre cose la base dello Zyklon B, il gas tossico usato nei campi di sterminio nazista per uccidere i deportati.
Nella chimica le questioni etiche relative al dual use sono un argomento noto di discussione, almeno dalla prima sintesi dell’ammoniaca nel 1909, fondamentale per la produzione dei fertilizzanti moderni, ma anche degli esplosivi e delle armi chimiche utilizzate poi nella Prima guerra mondiale. Questi dilemmi portarono nel tempo a promuovere il disarmo e la non proliferazione delle armi di distruzione di massa attraverso convenzioni e trattati internazionali, ma non a un divieto di fare ricerca nel campo delle tecnologie alla base sia di quelle armi sia di mezzi e strumenti fondamentali nel settore civile, medico e industriale.
A volte succede anche che applicazioni non militari emergano in un secondo momento dall’uso di tecnologie sviluppate inizialmente in progetti militari. Un esempio noto e molto citato è Internet, per il cui sviluppo fu fondamentale il precedente progetto di ricerca di una rete di comunicazione militare (Arpanet) finanziato dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda.
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La più comune obiezione alle iniziative che mirano a ostacolare o vietare del tutto la ricerca nel campo delle tecnologie dual use è che tutta la ricerca applicata può esserlo. Materiali rinforzati con fibra di carbonio o altre fibre, per esempio, sono utilizzati per le costruzioni civili e aerospaziali, ma possono anche servire a produrre missili: ostacolare questo tipo di ricerca nella scienza dei materiali significherebbe rinunciare all’una e all’altra applicazione.
A rendere il dibattito più scivoloso contribuisce proprio il fatto che nell’innovazione tecnologica degli ultimi decenni c’è stata una progressiva convergenza tra il settore civile e quello militare. In molti paesi, specialmente quelli che considerano la scienza una parte essenziale della sicurezza nazionale, come appunto gli Stati Uniti, la ricerca dual use è diventata nel tempo una priorità. Settori come l’intelligenza artificiale, la robotica, il riconoscimento e l’elaborazione delle immagini digitali, la cybersicurezza e le nanotecnologie sono tutti ambiti di ricerca con applicazioni sia civili sia militari immediate.

La schermata di un software di sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale, Vizgard FortifAI, presentato al DroneX Expo a Londra, il 26 settembre 2023 (John Keeble/Getty Images)
L’intelligenza artificiale può essere utilizzata per individuare agenti patogeni nei campioni di sangue e anomalie nelle risonanze magnetiche, più rapidamente e accuratamente di quanto possa fare un operatore umano. Ma può essere utilizzata anche per la selezione dei bersagli dei bombardamenti, per esempio, o per incrementare le capacità dei governi di sorvegliare la popolazione nei paesi autoritari.
Salina, il ricercatore dell’INFN, insegna anche reti neurali e dinamica dei sistemi complessi all’Università di Tor Vergata. «Come posso sapere in quali applicazioni i miei studenti utilizzeranno un domani le nozioni apprese oggi a lezione? È una domanda che mi pongo spesso, ma smettere di occuparmi di intelligenza artificiale a lezione non mi sembra una buona risposta», dice.
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Uno dei punti fondamentali della questione, secondo Salina, è il finanziamento delle università e degli enti di ricerca: più aumenta la loro dipendenza da fondi privati esterni, più aumentano le probabilità che la ricerca abbia applicazioni militari immediate. Più che chiedersi quale tecnologia sia pericolosa in sé, dice, ha quindi senso da scienziati chiedersi quali interessi potrebbe avere chi finanzia i progetti e regolarsi in base a questo.
È un discorso che in parte vale anche per il finanziamento pubblico, che non avviene mai in una bolla e senza condizionamenti, ma sempre all’interno di un contesto sociale e culturale che favorisce o asseconda alcuni orientamenti anziché altri, spesso in funzione del contesto internazionale. Anche l’Unione Europea, tradizionalmente incline a sostenere soprattutto la ricerca in ambito civile e di cooperazione internazionale, in tempi recenti ha aumentato attraverso la Banca Europea degli Investimenti (BEI) le operazioni a sostegno dei progetti di difesa e nelle tecnologie dual use.
«La divisione tra applicazioni civili e di difesa è molto spesso artificiosa, e […] non possiamo lasciarci sfuggire la possibilità di fare ricerca e innovazione per rendere più sicuri i cittadini europei», disse a luglio Ekaterina Zaharieva, commissaria europea per le startup, la ricerca e l’innovazione. Stava presentando i dettagli del prossimo Horizon, il principale programma di finanziamento alla ricerca dell’UE, che dovrebbe includere la concessione automatica dei finanziamenti per tutte le startup attive nei settori della difesa e del dual use, sul modello della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), l’agenzia statunitense che si occupa di sviluppare tecnologie all’avanguardia per l’esercito.
Un contesto accademico che in generale valorizza e privilegia perlopiù attività di ricerca finalizzate al mondo del lavoro, secondo Salina, finisce per influenzare inevitabilmente anche gli interessi e le sensibilità individuali, con tutta una serie di effetti a catena. I dottorandi si impegnano prevalentemente nei progetti che hanno più probabilità di ricevere finanziamenti, e oggi sono poi spesso assunti da grandi aziende tecnologiche, che sono quelle le cui attività di ricerca hanno ricadute dirette in ambito militare.
«Più dei dubbi e degli sviluppi del dibattito sul dual use quello che mi spaventa è la prospettiva di una fase storica in cui l’unica ricerca scientifica finanziata è di fatto la ricerca con applicazioni militari», conclude Salina.
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