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  • Martedì 23 settembre 2025

Comprare un’acciaieria in Italia è tutt’altro che conveniente

Il motivo è il prezzo dell’energia, ed è un altro problema che rende difficoltosa la vendita dell'ex ILVA

di Francesco Gaeta

L'impianto siderurgico Thyssenkrupp a Duisburg, Germania. (EPA/FRIEDEMANN VOGEL)
L'impianto siderurgico Thyssenkrupp a Duisburg, Germania. (EPA/FRIEDEMANN VOGEL)
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Il tempo per vendere l’ex ILVA di Taranto sta per finire. La scadenza per presentare le offerte, fissata al 15 settembre, è stata prorogata al 26 settembre, segno della difficoltà che il governo, che gestisce l’azienda in regime di amministrazione straordinaria, sta incontrando (malgrado molti annunci ottimisti). Il prezzo stimato all’inizio era un miliardo di euro, ma sarà certamente di molto inferiore: si parla addirittura di un prezzo “simbolico”. Vendere l’ex ILVA è difficoltoso per tutti i problemi ambientali e lavorativi che ha l’impianto, ma c’è anche un altro problema: il costo dell’energia.

La gara è ancora aperta, quindi non si sa se siano state presentate offerte, ma si sa che in questi giorni si è ritirato Baku Steel, il gruppo siderurgico azero che sembrava il più accreditato tra i potenziali acquirenti. Fonti del ministero delle Imprese e del Made in Italy dicono che sarebbe ancora interessato il gruppo indiano Jindal Steel, che però nei giorni scorsi ha presentato un’offerta di oltre due miliardi di euro per rilevare la divisione acciai di Thyssenkrupp, storico gruppo metallurgico tedesco. Thyssenkrupp la sta valutando, ma in ogni caso per Jindal comprarsi un’acciaieria tedesca sarebbe assai più conveniente, perché per le aziende energivore in Germania l’energia costa meno che in Italia. E in un settore come quello siderurgico è un aspetto fondamentale per scegliere dove investire.

L’impianto ex Ilva di Taranto visto dai tetti del quartiere Tamburi (Ansa/Ciro Fusco)

Il differenziale tra il prezzo dell’energia in Italia e quello degli altri paesi europei è da sempre notevole. È stato proprio un gruppo siderurgico, Arvedi, a renderlo noto in modo inusuale nei giorni scorsi, con una pagina a pagamento sui quotidiani. Vi campeggiava un grafico con i prezzi medi tra il 1° gennaio e il 31 agosto 2025: Italia 85 euro a megawattora (MWh), Germania 44, Francia 25, paesi nordici 30.

Jindal è un gruppo indiano con una capacità produttiva annua di oltre 12 milioni di tonnellate di acciaio grezzo – quella dell’impianto di Taranto sarebbe teoricamente di 8 milioni, ma la produzione attuale è inferiore a 2 – e l’obiettivo dichiarato è di arrivare a 30 milioni entro il 2030. Anche per questo l’azienda sta provando a espandersi nel mondo: prima dell’offerta a Thyssenkrupp, in Europa aveva già acquisito lo stabilimento Vitkovice Steel in Repubblica Ceca. Per calcolare quanto costerebbe a Jindal comprare l’impianto di Taranto invece che quello di Duisburg (dove ha sede la divisione acciai di Thyssenkrupp) bisogna dunque considerare i prezzi medi dell’energia nei due paesi, la quantità di energia necessaria a produrre una tonnellata di acciaio e anche prendere in considerazione le tecnologie attuali e quelle che verranno adottate.

Attualmente sia l’impianto tedesco che quello italiano lavorano con la tecnologia tradizionale: altoforni alimentati a coke, un residuo del carbone fossile. Significa che il minerale di ferro viene fuso negli altoforni. È un metodo di produzione altamente inquinante, emette alte quantità di anidride carbonica e altre sostanze nocive derivanti dalla combustione. Il mercato, dunque, va verso una tecnologia diversa, quella a forni elettrici ad arco (EAF, Electric Arc Furnace). Per Taranto la transizione è dettagliata in un accordo di programma su cui ad agosto governo, regione, comune di Taranto e sindacati hanno raggiunto una generica intesa (ma che ancora non è stato firmato): l’accordo fissa come obiettivo una produzione di 6 milioni di tonnellate all’anno. La materia prima non sarà più il minerale di ferro ma il cosiddetto “preridotto” (gli esperti usano la sigla DRI, Direct Reduced Iron), un prodotto ferroso ottenuto chimicamente dal minerale in un processo che richiede un consistente uso di gas naturale.

In sintesi, in un ciclo di lavorazione decarbonizzato (DRI + EAF) serve molto gas per creare il preridotto e parecchia energia elettrica per fondere il preridotto nei forni elettrici.

Ora un po’ di calcoli. Servono a capire quanto – tra elettricità e gas – costerebbe l’impianto di Taranto una volta andato a regime (cioè con tecnologia pulita e produzione da 6 milioni di tonnellate all’anno come previsto dall’accordo) rispetto a uno identico in Germania.

Allo stato attuale un forno elettrico ad arco ha un fabbisogno di 0,40 MWh per tonnellata. È una stima che arriva da chi oggi usa già questa tecnologia in Italia. Applicando i prezzi medi all’ingrosso dell’elettricità di gennaio–agosto 2025, il costo della sola componente elettrica risulta di circa 34 euro a tonnellata per l’Italia contro i 18 euro per la Germania. Su una produzione annua di 6 milioni di tonnellate, questo scarto si traduce in un costo aggiuntivo di circa 96 milioni di euro all’anno.

A questo va aggiunto il costo del gas che serve a creare la materia prima. Secondo stime della AIST, una grande associazione di produttori con membri in decine di paesi nel mondo, il fabbisogno di gas di un impianto DRI, cioè quello che fornisce il ferro preridotto al forno elettrico, è di circa 2,9 MWh per tonnellata. Ai prezzi medi recenti, il costo unitario del gas risulta di circa 103 euro a tonnellata di acciaio in Italia e di 96 euro in Germania. Traslato su una produzione annua di 6 milioni di tonnellate, parliamo di una differenza di circa 42 milioni di euro di extra-costo annuo.

Sommando le due voci – energia elettrica e gas – si ha una stima di quanto Jindal pagherebbe in più se decidesse di comprare l’impianto di Taranto un volta andato a regime: circa 138 milioni in più all’anno.

Dietro questa differenza ci sono almeno due ragioni “strutturali”. La prima è che le imprese italiane (e anche i cittadini) pagano di più l’energia rispetto ad altri paesi europei perché ci pagano sopra più tasse. Il carico fiscale è pari al 27,5 per cento del costo finale (quasi il doppio della media europea), mentre in Germania è al 15 per cento. L’Italia è addirittura il secondo paese europeo per livello di tassazione sull’energia.

C’è poi un secondo fattore: l’Italia è fortemente dipendente da fonti energetiche fossili (valgono almeno la metà del nostro mix energetico) e in particolare dal gas, il cui prezzo finale al consumatore o all’impresa è più alto rispetto ad altre fonti come le rinnovabili o il nucleare. Chi in Europa ha diversificato il proprio “mix energetico” puntando su queste fonti ha prezzi più bassi. È così per esempio per la Spagna, che ha quasi il 60 per cento dell’elettricità da fonti rinnovabili e il 20 per cento dal nucleare, e per la Francia, dove oltre il 65 per cento dell’elettricità è prodotta col nucleare e solo il 3 per cento dal gas.