Il processo che racconta come è finita la libertà di Hong Kong
L’editore e attivista per la democrazia Jimmy Lai sarà quasi sicuramente condannato, poi diventerà una questione diplomatica fra Cina e Donald Trump

Giovedì è finito a Hong Kong il processo in cui è imputato Jimmy Lai, imprenditore dei media e attivista per la democrazia. È stato un processo molto seguito anche all’estero, perché rappresenta in modo evidente l’erosione delle libertà civili di Hong Kong e dell’autonomia del suo sistema giudiziario dalla Cina. Lai inoltre negli ultimi anni è diventato noto a livello internazionale per il suo sostegno e la sua partecipazione alle proteste a favore della democrazia.
La sentenza arriverà nelle prossime settimane o nei prossimi mesi: non c’è una data precisa, ma sembra abbastanza scontato che verrà condannato, come succede quasi sempre nei casi che riguardano la cosiddetta “sicurezza nazionale”. Lai è accusato di «cospirazione per colludere con forze straniere», ossia di aver cospirato contro il governo cinese perché avrebbe chiesto agli Stati Uniti e al Regno Unito di imporre sanzioni contro la Cina. È anche accusato di aver contribuito all’organizzazione delle grandi proteste per la democrazia del 2019.
Lai ha 77 anni e può essere condannato all’ergastolo, ma il suo futuro dopo la sentenza verrà probabilmente deciso a livello diplomatico. Donald Trump e la sua amministrazione hanno più volte detto di voler «fare tutto il possibile» per farlo uscire di prigione. Dipenderà da quanto il governo cinese ritenga utile o accettabile inserirlo nelle molte trattative aperte con gli Stati Uniti.

Jimmy Lai in carcere nel luglio del 2023 (AP Photo/Louise Delmotte)
Jimmy Lai era arrivato dalla Cina a Hong Kong, allora colonia britannica, quando aveva 12 anni. Aveva fatto fortuna con imprese tessili e nel 1989, dopo la repressione di piazza Tiananmen a Pechino, divenne un sostenitore della democrazia e un critico del regime cinese. Entrò nel mercato dei media con un primo giornale. Nel 1995, due anni prima che il Regno Unito restituisse la colonia di Hong Kong alla Cina, fondò Apple Daily, quotidiano indipendente che divenne espressione del movimento pro democrazia. Nel 2014 e poi nel 2019 si espresse pubblicamente a favore delle grandi proteste contro la progressiva riduzione delle libertà e dell’autonomia di Hong Kong: il giornale era il principale quotidiano di opposizione. Lai fu arrestato nel 2020, e Apple Daily fu chiuso nel 2021.

Jimmy Lai, durante le proteste del 2014 (Lucas Schifres/Getty Images)
Lai fu arrestato sulla base della nuova e controversa legge sulla sicurezza nazionale, voluta nel 2020 dal Partito Comunista Cinese e pensata tra le altre cose per consentire al governo della Cina di esercitare un maggiore controllo sulla regione amministrativa di Hong Kong e limitarne la libertà di stampa. Formalmente il sistema giudiziario di Hong Kong è indipendente da quello cinese e si basa su un sistema di ispirazione anglosassone, ma la legge ha permesso alla Cina di iniziare a controllare i processi che si tengono nella città: tra le altre cose ha dato al governatore di Hong Kong il potere di nominare i giudici chiamati a gestire i casi considerati di sicurezza nazionale, una categoria dentro la quale finisce un po’ tutto.
Anche Lai verrà giudicato da tre giudici e non da una giuria popolare, come accadeva normalmente a Hong Kong. Con questa nuova formula, nei casi precedenti le percentuali di condanna sono vicine al 100 per cento. Il caso di Lai è quindi esemplificativo sia delle limitazioni alla libertà di espressione e alla libertà di stampa, sia della perdita di autonomia del sistema giudiziario.
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Il processo è durato 156 giorni, l’accusa ha definito Lai come la “mente” delle proteste del 2019 e Apple Daily come espressione di «progetti sediziosi». Dal 2024 una nuova legge, conosciuta come “articolo 23”, aumenta le pene per i reati legati alla pubblica sicurezza e amplia il concetto di sedizione, che comprende ora anche comportamenti non violenti. Lai è in carcere da 1.600 giorni in attesa della sentenza, passati perlopiù in isolamento (è stato condannato anche in altri processi minori per reati economici). È molto dimagrito (in passato era soprannominato «cicciottello Lai») e ha vari problemi di salute.

Persone in coda per assistere al processo nel novembre 2024 (EPA/LEUNG MAN HEI)
Lo scorso ottobre, durante la campagna elettorale per le presidenziali, Donald Trump si espresse in modo piuttosto netto sulla sua liberazione: «Lo farò liberare al 100 per cento, sarà facile tirarlo fuori». Lai è un grande sostenitore di Trump, a cui si appellò per la causa di Hong Kong nel 2019 (durante il primo mandato). Più recentemente Trump si è in parte rimangiato quelle dichiarazioni: «Non ho detto che lo avrei fatto liberare al 100 per cento, ma che al 100 per cento avrei provato a porre la questione». Ha detto che la sua amministrazione lo ha già fatto, ma che il presidente cinese Xi Jinping non è «entusiasta» all’idea di liberarlo.
Attualmente al centro dei negoziati tra Cina e Stati Uniti c’è la guerra commerciale, con enormi dazi annunciati dall’amministrazione statunitense e poi sospesi per almeno altri tre mesi. Fino a oggi Xi ha mostrato una ridotta disponibilità alla trattativa, e il regime cinese di solito non accetta discussioni su quelle che ritiene decisioni di politica interna, come la repressione del dissenso. D’altro canto le cattive condizioni di salute e l’età avanzata di Lai potrebbero facilitare una sua liberazione dopo una condanna: il governo potrebbe ritenere più utile cedere alle pressioni che fare di Lai un “martire” della democrazia che rischia di morire in prigione.
Oltre agli Stati Uniti anche il Regno Unito è interessato alle sorti di Lai, che dal 1996 è cittadino britannico: il primo ministro Keir Starmer ha parlato del suo caso con Xi nell’incontro di novembre 2024 al vertice del G20 in Brasile: gran parte della stampa britannica accusa il governo di non fare abbastanza.



