Non volevo essere Britney Spears
«Nel 1999, quando “...Baby One More Time” fu il disco più venduto, avevo i capelli rasati e cacciavo lucertole col mio vicino di casa. Stavo rifiutando il suo modello di femminilità o cercavo di aderire a quello maschile?»

A dodici anni chiesi a mio padre di accompagnarmi dal suo barbiere. Volevo tagliare i capelli da maschio. Il risultato fu che uscii da lì con la testa quasi rasata. Erano i famosi capelli «a spazzola» da tenere in piedi come aculei con abbondanti dosi di gel, cosa che per qualche anno fu, oltre ai detergenti per il corpo, il mio solo prodotto di cura. Non avevo beauty-case, né trucchi o smalti per unghie. Giocavo a calcio, fiera della mia T-shirt della Juventus, guardavo con superiorità le cugine che dedicavano il loro tempo ad abbellirsi e mi faceva piacere se le persone mi scambiavano per un ragazzo. Smisi poi di parlare con le compagne di scuola che si erano iscritte a un corso di cucito proposto da un’insegnante. Era la fine degli anni Novanta.
In molte culture il primo taglio di capelli è un atto rituale che segna simbolicamente la separazione dal mondo materno, equivalente, come scrive Pierre Bourdieu in Il dominio maschile, a un lavoro di virilizzazione o defemminizzazione del bambino. Anche io avevo inscenato il mio «giorno della separazione» – delegando mio padre ad aiutante – e scelto gli oggetti che, secondo l’antropologia, indicano l’idea di «taglio». Analogamente a quanto avviene in Nord Africa nel rito della cultura cabila, durante il quale i ragazzi si dotano di una cintura, un pugnale, un lucchetto e uno specchio, io mi ero munita di un coltello svizzero, uno di quelli coltellini che contengono anche una piccola forchetta. Come il padre nella cultura cabila guida ritualmente il figlio nel mercato, mondo esclusivamente maschile, presentandolo agli altri uomini, mio padre mi aveva portato – sempre su mia richiesta – a vedere la partita della Juventus contro l’Espanyol allo stadio di San Benedetto del Tronto.
Come dicevo, era la fine degli anni Novanta. Sebbene allora non ne fossi consapevole, anche la cultura pop diffondeva l’idea che il potere di una donna fosse principalmente di natura sessuale. Perfino la donna potente e di successo doveva essere sexy. Non esistevano alternative, né mi è permesso di sapere se il mio rifiuto di guardare la TV fosse una protesta del mio io preadolescente contro la proliferazione di girls sessualizzate. So che ancora oggi ho gravi lacune in materia di cultura pop. Iniziai ad ascoltare la musica esclusivamente dallo stereo evitando MTV, che era arrivata sulle frequenze italiane nel 1997, e mi dedicai esclusivamente al blues, il «genere dei malinconici», come avevo letto da qualche parte.
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Sul modo in cui la cultura pop ha contribuito a diffondere la convinzione, assorbita dalla maggior parte delle ragazze, che il sesso fosse la nostra moneta di scambio ha ragionato Sophie Gilbert nel recentissimo Girl on Girl: How Pop Culture Turned a Generation of Women Against Themselves. L’anno su cui voglio concentrarmi coincide grossomodo con l’incubazione della mia ribellione. Nel 1999, quando Gilbert aveva sedici anni e io dodici, succedono tre cose: la prima è Britney Spears che appare sulla copertina di Rolling Stone sdraiata su un letto rosa, con slip rosa e un reggiseno push-up nero, mentre stringe un pupazzo dei Teletubbies in una mano e nell’altra un telefono; nella seconda immagine, alta diciotto metri, la conduttrice di programmi per bambini Gail Porter, completamente nuda, è proiettata sul Palazzo del Parlamento di Londra, dove all’epoca meno di un deputato su cinque era una donna, per promuovere una rivista maschile; il terzo evento è l’uscita del film American Beauty, in cui un uomo di mezza età ha ricorrenti fantasie sessuali sulla migliore amica adolescente di sua figlia.
Parte della cultura pop di quegli anni potrebbe essere interpretata, secondo Gilbert, come una reazione (la teorica del femminismo Susan Faludi parlava di backlash o contraccolpo già nel 1991) all’attivismo femminista della seconda e terza ondata. Negli anni Novanta l’industria del pop assimila definitivamente un sistema ideologico che aveva preso piede già all’inizio degli anni Ottanta: le teorie e le pratiche alla base dei movimenti emancipatori del femminismo degli anni Settanta sono viste e raccontate come un ostacolo alla libertà delle donne di usare il corpo, per esempio, come se fosse ancora questo l’elemento primario capace di conferire loro dignità e potere.
È in quegli anni che si consolida l’equazione secondo cui essere sexy significhi essere libera. Gli aspetti paradossali di questo processo sono incarnati dal passaggio tra il successo del 1983 di Girls Just Want to Have Fun di Cyndi Lauper, in cui il divertimento è sganciato dalla seduzione, e quello del 1984 di Like a Virgin di Madonna, il cui approccio verso il corpo femminile è più complesso e ambiguo: da una parte ha scardinato la tradizionale opposizione tra “donna rispettabile” e “donna sessuale”, trasformando la femminilità esibita in gesto politico, ma dall’altro lato ha contribuito a normalizzare il potere femminile secondo le logiche del mercato e della visibilità. Del resto, questa è l’essenza del postfemminismo per come ne ha scritto nel 2008 Angela McRobbie in The Aftermath of Feminism. Negli anni Ottanta e Novanta le rivendicazioni libertarie degli anni Settanta vengono assorbite e capovolte dalle forme d’intrattenimento; così la sessualizzazione del corpo femminile diventa, di nuovo, la linfa di riviste, videoclip, videogiochi e pubblicità.
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Per la storia delle donne in Occidente gli anni Novanta sembrano racchiusi entro due estremi: da una parte c’è l’attivismo radicale del movimento femminista americano di matrice punk riot grrrl, nato come risposta a una scena musicale dominata dai maschi, dall’altra l’entrata in scena delle Spice Girls, che preparano il terreno a Britney Spears e compagnia. Lo slogan “Girl Power”, adottato dalle Spice Girls, diventa un marchio globale, nonostante fosse una versione edulcorata e commerciale del femminismo che non scardinava le strutture di potere né i canoni dominanti sulla sessualizzazione femminile.
L’autonomia rivendicata negli anni Settanta da un altro classico slogan femminista – «il corpo è mio e lo gestisco io» – nei Novanta viene fagocitata dal marketing musicale e tramutata a suo vantaggio in una forma ulteriore di sfruttamento visivo. È un modello che, inoltre, ha normalizzato in pochi anni la sessualizzazione precoce delle adolescenti, specialmente attraverso i video musicali e le performance live. Basti pensare alla sedicenne Britney Spears che debutta grazie al video …Baby One More Time, in cui «canta e saltella come la più birichina delle scolarette», a detta di Rolling Stone, chiedendo «Hit me» («colpiscimi)» e «one more time» («di nuovo»), o in Italia al programma Non è la Rai che aveva cominciato ad andare in onda nel 1991.
Il mio taglio di capelli e la mia maglietta della Juve non erano dovuti a odio verso il genere femminile, ma forse, mi sono detta di recente, al bisogno di smontare i diktat imposti da una cultura che si avviava a normalizzare una certa idea di donna e, anche, di ragazza. Essere vista come ragazza implicava essere percepita attraverso un corpo che doveva soddisfare i criteri imposti da un’industria dello sguardo maschile. Le ragazze, per essere femminili, dovevano dimenarsi in balletti, esibizioni, ammiccamenti e scegliere la propria posizione all’interno di un universo forgiato su alcune delimitate categorie. Mi si perdonerà il termine junghiano, ma bisogna ricordare che ciascuna Spice Girl rappresentava un archetipo femminile: Sporty, Baby, Scary, Ginger, Posh. Il consumo del corpo femminile veniva offerto in una versione diversificata, quasi targettizzata secondo categorie non lontane da quelle del porno che sarebbe venuto, ma controllata.
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La domanda implicita che, attraverso il pop, il mondo rivolgeva a ogni ragazza era: e tu che spice girl sei? E io che spice girl ero? Mi piace pensare di avere scelto di rendere il mio corpo irriconoscibile, invisibilizzando il genere femminile, proprio per il desiderio di evitare di aderire a una di queste etichette estetiche ed erotiche. Secondo Bourdieu il mondo sociale «funziona come un mercato dei beni simbolici dominato dalla visione maschile», in cui la donna, e questo non ce lo insegna nessuno quando siamo preadolescenti, ricopre una posizione particolare perché, più dell’uomo, subisce la condizione di essere percepita da uno sguardo dominato dalla visione maschile (per questo in Il dominio maschile Bourdieu impiega il latino percipi). Se ogni rapporto umano è il luogo di uno scambio in cui ciascuno offre alla valutazione dell’altro il proprio aspetto sensibile ancor prima di altri aspetti (come il linguaggio), per la donna il peso di questo essere percepiti è maggiore che per l’uomo. Mentre nell’uomo il corpo tende a essere cancellato a vantaggio dei segni «della posizione sociale (abito, decorazioni, uniforme ecc.), nelle donne la cosmesi e l’abbigliamento mirano a esaltarlo e a farne un linguaggio di seduzione. E ciò spiega perché l’investimento (in tempo, in denaro, in energie ecc.) nel lavoro cosmetico sia assai più alto nella donna».
Una delle conseguenze del dominio dello sguardo maschile può essere l’interiorizzazione del sessismo di cui si è vittime. È ovvio, insomma, che anche le donne, dopo aver osservato ripetutamente credenze sociali che sminuiscono il valore e le capacità femminili, finiscano per interiorizzare tali convinzioni misogine e applicarle a sé stesse e alle altre donne. È l’oggetto di uno studio del 2009 intitolato The Fabric of Internalized Sexism. Gli autori hanno “origliato” le conversazioni tra 45 coppie di amiche per valutare in quali forme e con quale frequenza si manifestasse il sessismo interiorizzato, arrivando a evidenziare quattro tendenze: le affermazioni di incompetenza, che esprimono un senso interiorizzato di impotenza; la competizione tra donne, percepite come avversarie; l’oggettivazione, cioè la percezione delle altre donne come oggetti; infine l’invalidazione o la denigrazione. Gli autori hanno contato 11 di queste pratiche ogni 10 minuti di conversazione, il che suggerisce come il sessismo interiorizzato possa costituire una pratica sociale abituale nei dialoghi tra donne. (C’è una parola che è tornata in superficie dopo aver viaggiato nella memoria della mia infanzia: puttana. Così una mia compaesana definiva tutte le donne che non le andavano a genio o che, più correttamente, non riusciva a categorizzare).
Nel 1999 …Baby One More Time di Britney Spears fu il disco più venduto. Sebbene fossi impegnata a cacciare lucertole col mio vicino di casa, devo ammettere che anche a me, con i miei capelli rasati, capitava di canticchiarla. «Non intendevo dire di “colpirmi fisicamente”», spiegava Spears a Rolling Stone, «ma di darmi un segnale. Mi fa ridere che la gente sia convinta che intendessi altro». Se si pensa alla sua storia successiva e alla sua battaglia legale con il padre, questa richiesta appare una macabra profezia, e questo vale anche se il testo non era suo.
Forse mi avrebbe fatto piacere se, all’età di tredici anni, qualcuno mi avesse spiegato che esistono tanti tipi di femminilità così come di mascolinità (e forse avrebbe fatto piacere anche a molti maschi) perché quella mia fase “maschile”, più o meno consapevolmente attuata, implicava una strana distanza tra me e le altre ragazze.
Sono contenta che i miei familiari non mi abbiano mai criticata né chiesto di essere «più femminile» o «meno mascolina». Solo una volta, quando chiesi a mia madre di accompagnarmi nella parte vecchia di Pescara per comprare un giubbotto di pelle usato, mi domandò se io fossi bisessuale. Questo mio periodo di rivoluzione identitaria non ha coinciso con un’esplorazione di tipo sessuale. Credo sia stato il modo più immediato, radicale e silenzioso che avevo per oppormi a qualcosa di cui non conoscevo né l’alfabeto né le ragioni.
Oggi, a trentasette anni, comprendo che quella strategia conteneva anche il rischio di una forma paradossale di sudditanza verso gli stessi modelli maschili che cercavo di eludere. Da qualche anno, su TikTok e altri social, girano dei meme con la dicitura #notlikeothergirls, indirizzati alle ragazze che rifiutano tutto ciò che viene percepito come femminile: look, abitudini, hobby. Se oggi avessi dodici anni, sarebbero contenuti di mio gradimento.
Tra i meme e i video di persone che criticano i contenuti #notlikeothergirls – alcuni molto intelligenti – ne ho trovato uno in cui si dice che «nella tarda infanzia le bambine iniziano a prendere consapevolezza della discrepanza di potere nelle ideologie di genere. Il che può tradursi in uno shift dall’essere una girly girl all’essere one of the boys». Decidendo di affiliarmi alla cerchia dei boys, ho corso il rischio di cadere nel circolo vizioso della misoginia interiorizzata, cioè di combattere un’ideologia utilizzando gli stereotipi prodotti da quella stessa ideologia.
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