Forse non sai di avere un bosco
Non è un'esagerazione: in molti casi risalire ai proprietari è impossibile, perché abbiamo lasciato le foreste abbandonate senza preoccuparci delle conseguenze
di Isaia Invernizzi

Le mappe catastali di quasi tutti i paesi di montagna sembrano puzzle composti da pezzi minuscoli, piccoli poligoni che identificano le diverse proprietà. Queste particelle – al catasto si chiamano così – hanno una forma strana rispetto ai poligoni di una mappa cittadina: a volte sono rettangoli lunghi e stretti, a volte quadratini, ma ce ne sono alcune che sembrano disegnate a mano o addirittura dal caso, talmente sono bizzarre. Nella realtà, fuori dalla rappresentazione bidimensionale, in ognuno di quei piccoli poligoni ci sono alberi e arbusti, sentieri, rocce, torrenti e pendii che formano un’unica superficie senza cancelli o muri: sono le foreste, grandi estensioni di boschi.
A meno di trovare cartelli – sarebbe comunque un’eccezione – camminando in qualsiasi bosco è impossibile capire dove inizia o finisce una proprietà. Spesso nemmeno chi possiede quel bosco sa distinguerne i confini. Anzi, spesso chi ne possiede uno non sa nemmeno dove sia esattamente la sua proprietà, ereditata chissà quando, anni fa, da un parente più o meno lontano. D’altronde un bosco non è una casa o un appartamento, non c’è la fila per averne un pezzo.
Per questo motivo capita spesso, più spesso di quanto si possa pensare, che molte persone non sappiano nemmeno di avercelo, un bosco.
Non sapere di avere un bosco non è solo una circostanza curiosa. È il sintomo del rapido abbandono di molti terreni, non solo montani, avvenuto dalla metà del Novecento a oggi: allora i boschi erano redditizi, ora molto meno. Da anni la comunità di esperti ed esperte che studia come gestire le foreste e i boschi discute di questo abbandono, un fenomeno considerato preoccupante per molti motivi. Questa preoccupazione, tuttavia, viene ascoltata di rado dalla politica e soprattutto fatica ad arrivare alla maggioranza delle persone.
Un dato che potrebbe sorprendere: si stima che in Italia i proprietari dei boschi siano circa un milione tra persone, aziende e istituzioni pubbliche. Un altro dato che potrebbe sorprendere: il 66 per cento appartiene a privati, mentre solo il 34 per cento è di proprietà pubblica. Con un numero così grande di proprietari la maggior parte di loro si ritrova con meno di un ettaro di terreno, ovvero meno di 10mila metri quadrati. A volte le proprietà non superano pochi metri quadrati sparsi qua e là, di cui si perde cognizione nei passaggi di eredità.
I comuni che hanno dovuto contattare i proprietari dei boschi per espropri o lavori di manutenzione sanno quanto possa essere difficile risalire a tutti. Oltre a essere piccoli, i terreni possono essere posseduti da molte persone, di solito imparentate tra loro e ormai con pochi legami con i paesi di origine a causa del progressivo spopolamento delle zone montane.
Le persone finiscono per disinteressarsi dei propri boschi anche perché non è facile raggiungerli, non si sa bene che farne e all’apparenza non valgono nulla. Sono più un problema che altro: il costo per la registrazione dal notaio di un atto di successione per l’eredità di un bosco e la successiva registrazione al catasto è in molti casi superiore al valore del bosco stesso.
Abbandono dopo abbandono, negli ultimi decenni le foreste si sono prese molto spazio, sono cresciute e sono avanzate a un ritmo abbastanza impressionante. Solo negli ultimi dieci anni sono aumentate di quasi il 5 per cento, quasi 500mila ettari, cinquemila chilometri quadrati, una superficie estesa poco meno della regione Liguria. Oggi sono arrivate a coprire il 36,7 per cento del territorio nazionale tra foreste, piccoli boschi e piantagioni, per un totale di 11 milioni di ettari, 110mila chilometri quadrati. Non tutti questi boschi sono abbandonati, ovviamente.

Una veduta aerea di un bosco accanto al lago di Misurina, in provincia di Belluno (Athanasios Gioumpasis/Getty Images)
Nel lessico specialistico i terreni lasciati a loro stessi vanno incontro a un processo che in inglese viene chiamato rewilding, solitamente connotato in modo positivo anche se le sue conseguenze non lo sono. «Sfortunatamente l’opzione “abbandoniamo tutto e lasciamo che la natura riconquisti gli ambienti di montagna“ non è sempre la soluzione migliore», dice Davide Pettenella, professore di economia e politica forestale dell’università di Padova e coordinatore della strategia forestale nazionale. «I boschi italiani gestiti per secoli con tagli frequenti e selezione delle specie produttive per fornire legna da ardere non sono più nelle condizioni di rimanere stabili proprio a causa dell’abbandono». Sono molto vulnerabili a una serie di fenomeni più frequenti a causa dei cambiamenti climatici: alluvioni, tempeste di vento, ma anche attacchi parassitari, con conseguenze e possibili danni per i paesi vicini.
I più esposti sono i boschi formati prevalentemente da latifoglie come faggio, castagno, cerro, governati con tagli periodici per stimolare la ricrescita della cosiddetta ceppaia, cioè i fusti (si chiamano polloni) che crescono da un ceppo troncato. Questo genere di boschi è chiamato ceduo, e veniva gestito così, attraverso tagli continui, per produrre legna da ardere o legno per realizzare pali e staccionate. Garantivano materiale e anche un certo guadagno.
Lasciare che un bosco ceduo cresca liberamente, dice Pettenella, non è una cosa saggia. Bisognerebbe intervenire per diversificare la composizione delle specie, di tanto in tanto diradare le ceppaie, piantare piante ad alto fusto. In questo modo migliora la biodiversità e il suolo si stabilizza, e si ricrea la versione più vicina a un habitat naturale. Solo che in Italia, per via del disinteresse o del fatto che molte persone non sanno di essere proprietarie di un bosco, tutto questo è stato fatto raramente.
All’estero è andata diversamente. Da decenni i boschi vengono gestiti da associazioni che riuniscono piccoli proprietari. Fa tutto l’associazione: controlla costantemente le foreste, avvisa quando le piante hanno raggiunto una certa maturità, le taglia, le vende e ne ripianta di nuove. In paesi come la Svezia o la Finlandia questa forma di associazionismo è arrivata a gestire segherie e impianti di produzione del legname. Il meccanismo è più o meno lo stesso che ha portato alla nascita delle cantine sociali in Italia.
In Italia poi in quel 34 per cento di proprietà pubblica ci sono soprattutto comuni, per la maggior parte piccoli comuni di montagna che già faticano a mantenere i servizi essenziali. I sindaci non hanno mezzi, competenze e soldi per gestire un patrimonio così esteso, ma negli ultimi anni qualcuno ha iniziato ad affidare tutto alle associazioni forestali. C’è ancora molto da fare, visto che solo il 10 per cento delle foreste è pianificato, ovvero ne viene gestita la manutenzione.
La visione più generale, ovvero stimolare una gestione più attenta, spetterebbe alle regioni a cui negli anni Settanta è stata affidata la competenza delle foreste. C’è però un problema, anzi il problema: le decisioni e gli investimenti su una foresta hanno effetti tra almeno una decina d’anni, se non di più. I soldi e gli sforzi vanno quindi su altro. «La visione sul lungo periodo è merce rara. Le piante non votano», dice Pettenella.
L’abbandono ha anche un’altra conseguenza: le foreste italiane non gestite non possono fornire legno alle aziende italiane, che sono costrette a comprarlo dall’estero e importarlo con treni o camion.
Nonostante oltre un terzo della superficie sia ricoperto da boschi e nonostante il settore della produzione di mobili sia tra i più quotati al mondo, l’Italia importa circa l’80 per cento del legno che le serve. Il legname semilavorato proviene da Austria, Francia, Svizzera e Germania. In Italia viene prodotto quasi solo legname industriale grezzo, di scarso valore.
Una delle iniziative più concrete e interessanti portate avanti in Italia per aiutare i piccoli proprietari a dare un senso al loro bosco si chiama forest sharing. È una piattaforma sviluppata dall’università di Firenze che mette in contatto proprietari e tecnici forestali con l’obiettivo di formare aggregazioni o associazioni sul modello scandinavo, evitando così di abbandonare i boschi a loro stessi. Finora si sono iscritte circa 2.600 persone per un totale di circa 28mila ettari, 280 chilometri quadrati.
Man mano che in un territorio iniziano a colorarsi pezzi della mappa si può capire se è possibile formare un’aggregazione, anche tra privato e pubblico. «Poi non è detto che bisogna per forza farci qualcosa, con quei boschi: si possono anche lasciare liberi di evolvere, se sono sani», dice Francesca Giannetti, ricercatrice dell’università di Firenze che lavora a forest sharing. «Il problema è non sapere cosa sta succedendo, come capita quasi sempre ai proprietari. Molti ci ringraziano perché finalmente grazie a noi riescono a sapere dov’è davvero il loro bosco».
Qualche aggregazione è già nata. Nell’Appennino pistoiese, in Toscana, l’associazione Campeda Futura ha coinvolto 14 proprietari di castagneti abbandonati che sono stati ripuliti e ora vengono curati. In Sardegna alcune cooperative sono tornate a gestire sugherete divise tra tanti piccoli proprietari. In totale, sfruttando bandi ministeriali italiani e fondi europei, sono state finanziate 36 associazioni.



