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  • Mercoledì 13 agosto 2025

Come funziona la giustizia per chi ha meno di 14 anni

Per il nostro ordinamento bambini e ragazzini non sono imputabili, ma non vuol dire che dopo un reato non accada niente

L'ingresso della procura dei minori di Milano
L'ingresso della procura dei minori di Milano (ANSA/MOURAD BALTI TOUATI)
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Le accuse nei confronti di quattro ragazzini tra gli 11 e i 13 anni, presunti responsabili della morte di una donna di 71 anni investita e uccisa a Milano, hanno ravvivato una discussione in corso da anni sulla responsabilità giuridica di persone così giovani e sulla possibilità – finora sempre esclusa– di processare e condannare chi ha meno di 14 anni.

Da tempo alcuni politici, in particolare il leader della Lega Matteo Salvini, hanno proposto di modificare le leggi abbassando l’età dell’imputabilità, da 14 a 12 anni. Non è un caso che queste esternazioni, fatte con un approccio repressivo più propagandistico che altro, si basino proprio sull’imputabilità: questo principio è infatti essenziale non solo per applicare le procedure della giustizia minorile, ma anche per rispettarne e seguirne gli obiettivi principali, tra cui la funzione rieducativa e non punitiva.

L’imputabilità è il riconoscimento della capacità di intendere e di volere della persona accusata di un reato. Semplificando, la capacità di intendere consiste nel comprendere il significato delle proprie azioni e di valutarne le possibili conseguenze positive o negative sugli altri, oltre che l’eventuale contrarietà di quelle azioni ai valori giuridici condivisi socialmente. La capacità di volere riguarda invece il controllo dei propri impulsi.

L’articolo 85 del codice penale dice che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”. A partire dai 18 anni la capacità di intendere e di volere è automatica: significa che l’eventuale incapacità può essere dimostrata solo con una perizia psichiatrica. Nel caso delle persone minori tra 14 e 18 anni invece spetta al giudice accertare, in ogni singolo caso, se la persona sia imputabile sulla base del suo grado di maturità.

Per chi ha meno di 14 anni l’approccio è ancora diverso, per certi versi opposto rispetto a quello seguito per le persone adulte: secondo l’articolo 97 del codice penale, in questo caso le persone non sono mai capaci di intendere e di volere, e per questo non possono essere processate e condannate. Questo principio si fonda sul fatto che un ragazzino con meno di 14 anni non ha ancora completato lo sviluppo psicofisico e non è in grado di comprendere il valore delle proprie azioni e di stabilire cosa sia giusto o sbagliato dal punto di vista etico e sociale.

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Per prima cosa è quindi molto importante accertare l’effettiva età del minore accusato. Quando l’età è incerta – capita soprattutto nel caso di minori stranieri – il giudice dispone una perizia per capire se il minore abbia più o meno di 14 anni.

Queste regole sono state introdotte nel 1988 dal Codice del processo penale minorile che regola la giustizia minorile in Italia, considerato in Europa un modello virtuoso di applicazione delle direttive pubblicate in quegli stessi anni da organismi internazionali ed europei: in particolare la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia del 1989 e le Regole minime delle Nazioni Unite per l’amministrazione della giustizia minorile, le cosiddette “Regole di Pechino” del 1985. L’età minima per essere imputati nei paesi dell’Unione Europea varia dai 10 ai 18 anni.

Le stesse regole non escludono a priori l’applicazione di una misura di sicurezza, come la custodia in una comunità o la libertà vigilata, anche se la persona non è imputabile. Anzi, le misure di sicurezza sono sempre da disporre quando il reato ipotizzato prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione almeno a tre anni. L’articolo 224 del codice penale stabilisce che il giudice può disporre misure di sicurezza quando l’autore di un delitto viene riconosciuto “socialmente pericoloso”.

Alla fine del 2024 erano 1.105 i minori (fino a 18 anni) ospitati in comunità che si occupano di accoglienza di giovani sottoposti a provvedimenti penali. «Non si trovano comunità di rieducazione dove far andare i ragazzi e negli ultimi anni, specie al Nord, il problema si è decisamente aggravato», ha detto Luca Villa, procuratore del tribunale per i minorenni di Milano, in un’intervista a Repubblica. «Ci sono più ragazzi coinvolti nel circuito penale per reati gravi, meno comunità e ancor meno quelle terapeutiche in grado di gestire l’attuale complessità dei minori autori di reato».

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Nella maggior parte dei casi, dopo aver accertato la mancata imputabilità, i giudici pronunciano una sentenza definita di “non luogo a procedere”, la formula giuridica con cui si indica la decisione di non processare la persona indagata. Negli ultimi anni sono emersi due diversi orientamenti sulle procedure da seguire.

In alcuni casi i giudici hanno emesso direttamente la sentenza di non luogo a procedere, giustificata con l’applicazione dell’articolo 97, con l’obiettivo di favorire una rapida conclusione del procedimento giudiziario. Nonostante l’intenzione fosse di favorire i minori, la sentenza immediata di non luogo a procedere comporta delle conseguenze sul lungo periodo perché rimane iscritta al casellario giudiziale fino ai 18 anni (il casellario giudiziale è l’anagrafe giudiziaria dove vengono annotati vari provvedimenti in materia penale). La stessa sentenza può essere usata per motivare successive misure di sicurezza personali.

La Corte di Cassazione ha stabilito in più sentenze che questa procedura viola il diritto di difesa delle persone accusate. La partecipazione della persona con meno di 14 anni a un’udienza preliminare, che si svolge prima della sentenza, è quindi considerata essenziale, anche se la stessa persona non è imputabile in quanto minore. L’udienza preliminare in questi casi ha anche una funzione educativa e responsabilizzante, perché offre al giudice la possibilità di spiegare alla persona accusata il significato e le ragioni dei provvedimenti.

C’è poi la questione della responsabilità dei genitori per le azioni dei figli. L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che la responsabilità penale è personale, quindi i genitori di un minore che commette un reato non possono essere chiamati a risponderne penalmente. Tuttavia i genitori sono responsabili civilmente per i danni causati dai figli, sia nel caso di illeciti civili, sia per risarcimenti nei confronti di vittime dei reati.

Per evitare il risarcimento, i genitori devono dimostrare di “non aver potuto impedire il fatto”, ma nel caso dei minori è una prova difficile da dimostrare in quanto la giurisprudenza considera un reato commesso da un minore come una violazione dell’obbligo formativo da parte dei genitori. Nel caso di una corresponsabilità più diretta, la valutazione di un’accusa nei confronti dei genitori deve essere fatta da un magistrato della procura e non dalla procura dei minorenni.

Uno dei più recenti interventi legislativi che riguardano la giustizia minorile è stato il cosiddetto decreto Caivano approvato nel settembre del 2023, che ha aumentato il numero di reati per i quali si può chiedere la custodia cautelare in carcere e dei casi in cui è possibile l’arresto in flagranza di minori.

L’unica novità che riguarda persone con meno di 14 anni è l’introduzione del provvedimento chiamato “ammonimento” anche per i minori tra i 12 e i 14 anni che hanno commesso reati per i quali è prevista come pena massima una reclusione a più di 5 anni. La legge prevede che i minori vengano convocati dal questore insieme ad almeno un genitore a cui viene data una sanzione amministrativa da 200 a mille euro, a meno che non possa provare di non aver potuto impedire il fatto.