Stiamo costruendo troppi data center per l’intelligenza artificiale?

Un po' tutti ci stanno investendo, anche in Italia, e c'è chi teme che sia una bolla destinata a scoppiare

La costruzione di un data center in Arizona, negli Stati Uniti, il 9 agosto 2025 (Eduardo Barraza/ZUMA Press Wire)
La costruzione di un data center in Arizona, negli Stati Uniti, il 9 agosto 2025 (Eduardo Barraza/ZUMA Press Wire)
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Che si chieda ai vari software di intelligenza artificiale di creare un’immagine, di fare una ricerca o di rispondere a una qualsiasi domanda, fanno sempre la stessa cosa: offrire una soluzione grazie al lavoro dei cosiddetti data center, grosse strutture per l’elaborazione dei dati che servono a far funzionare i software di intelligenza artificiale, ma che sono anche alla base di tutti i servizi digitali.

L’uso sempre più abbondante dell’intelligenza artificiale e le sue prospettive di crescita all’interno della società da un po’ di tempo hanno portato a un grosso aumento della costruzione dei data center nel mondo (anche in Italia). Se ne parla come di una «nuova corsa all’oro»: ne servono sempre di più e molto velocemente, e per la grande richiesta che c’è sono un investimento molto redditizio. Da qualche tempo però alcuni investitori e analisti hanno iniziato a chiedersi se, sull’onda dell’entusiasmo, non se ne stiano costruendo un po’ troppi rispetto alle reali necessità del mercato, e se non si stia creando una bolla destinata a scoppiare.

La costruzione dei data center richiede investimenti enormi. Sebbene dall’esterno sembrino normali capannoni, nella maggior parte dei casi grigi e anonimi, all’interno sono pieni di server, cioè computer che lavorano in connessione tra loro dove vengono archiviati e gestiti moltissimi dati. Non serve quindi solo il contributo dell’industria edile, ma materiale tecnologico, chip, e lavoratori specializzati nella progettazione e nella costruzione dell’infrastruttura.

Non sono solo gli investimenti a essere enormi, ma anche la richiesta di energia: i data center ne hanno bisogno 24 ore al giorno tutti i giorni dell’anno. In Wyoming, negli Stati Uniti, stanno progettando un data center che da solo consumerà più di tutte le case dello stato messe insieme. Circa metà dell’energia consumata serve ai sistemi di raffreddamento, che richiedono anche un cospicuo e problematico uso di acqua: bisogna estrarre l’aria calda dai server, che lavorando si scaldano come qualsiasi computer. Le aziende che li gestiscono stanno cercando diversi modi per alimentarli in modo più sostenibile ed economico, guardando per esempio all’energia nucleare o all’uso di pannelli solari: una caratteristica che contribuisce ad allargare ulteriormente il giro d’affari intorno.

Un data center di Microsoft, in Wisconsin (Mark Hertzberg/ZUMA Press Wire)

Al momento esistono poco meno di 10.500 data center, gran parte dei quali è negli Stati Uniti, il 38 per cento. Non solo sono il paese al mondo che ne ha di più, ma anche quello in cui i data center stanno avendo l’impatto maggiore sull’economia, come racconta l’ultima newsletter di Da Costa a Costa del Post. Nel secondo trimestre dell’anno il 40 per cento della crescita del PIL degli Stati Uniti è stato innescato dagli investimenti in infrastrutture per l’intelligenza artificiale, tra cui proprio i data center: hanno anche superato il contributo dei consumi interni, che storicamente è quello più rilevante per il paese.

Il motivo è che si trovano lì le principali aziende che stanno investendo in questa tecnologia, e che quindi hanno bisogno dei data center. Lo scorso anno Meta (cioè la società che ha Facebook, Instagram e WhatsApp), Alphabet (la società che possiede Google), Amazon e Microsoft hanno investito complessivamente 180 miliardi di dollari in infrastrutture per data center. Secondo i conti dell’Economist, se a questa cifra si aggiungono gli investimenti in data center di aziende più piccole il totale sale a circa 465 miliardi di dollari. Nel solo 2024.

Ci stanno puntando molto anche grandi società finanziarie, come Blackstone, il fondo KKR e la banca di investimento BlackRock, solo per citarne tre.

In misura più ridotta questo sta avvenendo anche fuori dagli Stati Uniti. Il 12 per cento dei data center è in Asia (il 3,5 in Cina), una quota che è meno della metà rispetto a quella europea: nei paesi europei, compresi quelli dell’Est, c’è il 32 per cento dei data center del mondo, e il 21 solo in Unione Europea. In Italia, nonostante un problematico vuoto legislativo, ce ne sono 198, perlopiù in Lombardia: è il terzo paese dell’Unione per numero di data center, dopo Germania e Francia, che ne hanno rispettivamente più del doppio e un terzo in più.

Ora qualcuno ha iniziato a chiedersi se tutte queste strutture servano davvero, e tra le grandi aziende ce ne sono alcune che stanno rallentando gli investimenti. I problemi principali sono due.

Il primo è che in teoria più la ricerca sull’intelligenza artificiale andrà avanti, più ci sono probabilità che questa tecnologia diventi più efficiente, che finisca per sfruttare in misura meno intensiva i data center, e che quindi vanifichi i rapidi e ingenti investimenti per costruirli. È del resto proprio un obiettivo delle aziende che ci stanno investendo, perché significherebbe costi di funzionamento inferiori.

Chi invece sostiene la necessità di ulteriori investimenti nei data center risponde che serviranno anche per tutta l’economia digitale, e che se anche l’intelligenza artificiale dovesse finire per sfruttarli di meno si potrà trovare il modo di convertirli. Sebbene le strutture per l’intelligenza artificiale abbiano specificità che le rendono non adatte al loro uso per altre finalità – prima tra tutte la grande concentrazione di potenza di calcolo, e quindi la necessità di energia per il raffreddamento – la differenza con i data center tradizionali, che già sostengono tutta l’economia digitale, è tutto sommato gestibile: già oggi i data center per l’intelligenza artificiale vengono spesso costruiti a partire da strutture già esistenti.

Del resto molte aziende sono ancora in fase di digitalizzazione delle proprie attività, l’uso di internet continua a crescere nei paesi in via di sviluppo, e la digitalizzazione di dispositivi come frigoriferi, automobili e macchinari industriali genera enormi quantità di dati che vengono gestiti proprio nei data center. I data center sono essenziali anche per i servizi cloud, cioè i sistemi di archiviazione esterna che consentono di conservare e spostare i dati su diversi server per renderli disponibili sempre e ovunque tramite internet.

Aziende come Alphabet, Amazon e Microsoft hanno per di più lamentato limiti di capacità proprio per i loro servizi cloud, che secondo loro avrebbero avuto ripercussioni negative sui risultati aziendali: nel tentativo di tenere il passo con la domanda hanno affittato strutture dagli operatori di data center, i quali anche loro si trovano ad avere diversi problemi a espandere la capacità con la rapidità che chiede il mercato. Spesso chi costruisce un data center trova acquirenti per la sua capacità ancora prima che sia costruito e funzionante.

Il secondo tipo di problema è perlopiù di natura finanziaria e legato a un momento di crescente scetticismo sulla sostenibilità economica dell’intero business dell’intelligenza artificiale.

Un data center di Meta a Dublino, in Irlanda (Associated Press / LaPresse)

Investire nei data center, quindi in infrastrutture essenziali per il solo funzionamento di questa tecnologia, richiede infatti moltissimi capitali, oltre a quelli necessari per la ricerca: finora le grandi aziende tecnologiche ne avevano in abbondanza, anche grazie alle riserve accumulate con i grossi guadagni negli anni della pandemia. Da qualche tempo però hanno iniziato a fare investimenti di questo tipo anche a debito, quindi facendosi prestare soldi dagli investitori: dai privati, dalle banche, dai fondi di investimento, che hanno concesso finanziamenti aspettandosi grandi profitti da un settore ritenuto promettente.

Anche se ci sono pochi dubbi che l’intelligenza artificiale avrà prima o poi un ruolo rivoluzionario nella tecnologia, nella società e nell’economia, il timore è però che ci vorranno ancora molto tempo e troppi soldi prima che possa diventare redditizia, e che per questo si rischi una crisi finanziaria come quella generata all’inizio degli anni Duemila nel bel mezzo della rivoluzione di internet, altra invenzione su cui c’erano altrettanti dubbi: la cosiddetta “dot com bubble”, la bolla finanziaria nata intorno alle aziende tecnologiche.

Le bolle finanziarie si verificano quando i prezzi degli strumenti finanziari – come possono essere le azioni di una società – superano significativamente il loro valore intrinseco, spesso alimentate da una domanda speculativa e da investimenti irrazionali che ne fanno salire il prezzo e che alla lunga portano a condizioni di mercato insostenibili. In poche parole c’è una bolla quando le azioni di una società (che sono piccoli pezzetti della società stessa) sono sopravvalutate rispetto alle prospettive di crescita dell’azienda: le bolle “scoppiano” quando il mercato se ne rende conto e tutti cominciano a vendere quei titoli, facendo crollare i prezzi e realizzare perdite significative per chi aveva comprato a prezzi più alti.

Nel caso dell’intelligenza artificiale non siamo ancora a questo punto, ma è da tempo che si parla del fatto che le azioni delle società del settore dell’intelligenza artificiale siano sopravvalutate.

Quando le bolle scoppiano non è un problema solo per il settore o per i paesi coinvolti, ma per la finanza globale: non solo perché i mercati sono sempre più internazionali – e quindi un investitore italiano può comprare senza problemi le azioni di una società americana – ma anche perché se il valore di queste aziende crolla ci perdono anche investitori rilevanti per l’intero sistema, come grandi banche e grandi fondi di investimento, con una reazione a catena sull’intera economia.

– Leggi anche: La storia della prima bolla speculativa di sempre