A Taranto non litigano solo per l’acciaio, ma anche per l’acqua
Da mesi viene contestato un progetto per costruire il dissalatore più grande d'Italia, pensato per risolvere le crisi idriche

A Taranto, la città pugliese che aspetta di capire quale sarà il futuro dell’ex ILVA dopo anni di inchieste e vani tentativi di rilancio, da alcuni mesi non si discute solo di acciaio, ma anche di acqua: più nello specifico, del progetto di un dissalatore, ovvero di un impianto per filtrare l’acqua salata e ricavare acqua dolce, potabile, da immettere nella rete idrica. Acquedotto Pugliese, la società pubblica che vuole costruirlo, sostiene che il dissalatore sia indispensabile per risolvere la crisi idrica, mentre diversi comitati e associazioni ambientaliste tra cui Legambiente e WWF dicono che sia un’opera inutile, uno spreco di soldi oltre che un danno per l’ecosistema.
Negli ultimi anni a Taranto, come in molte altre città della Puglia e del Sud, c’è stato un grave problema di siccità. Gli agricoltori sono i primi che hanno dovuto fare a meno dell’acqua, con notevoli conseguenze per lavoro e affari, ma lo scorso anno è stato minacciato anche il razionamento dell’acqua potabile in città. Acquedotto Pugliese sostiene che le attuali forniture – in particolare l’acqua proveniente dal fiume Sinni e dal lago Pertusillo – non siano più sufficienti. Un dissalatore, dice la società, garantirebbe la diversificazione delle fonti idriche e quindi una maggiore autonomia della città.
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Nei piani di Acquedotto Pugliese, il dissalatore prenderebbe fino a 650 litri al secondo dal Tara, un fiume carsico di acqua salmastra che scorre nel sottosuolo e riaffiora a circa 2 chilometri dal mare prima di sfociare nel golfo di Taranto. Una volta a regime, l’impianto potrebbe garantire acqua potabile per 385mila persone. Con questi numeri, sarebbe il dissalatore più grande d’Italia. L’investimento previsto è di 129 milioni di euro, aumentati di molto rispetto ai 98 ipotizzati inizialmente.
Non sarebbero solo le dimensioni a renderlo un impianto unico in Italia. Solitamente infatti i dissalatori non vengono costruiti per soddisfare il fabbisogno di città grandi come Taranto: negli ultimi anni ne sono stati costruiti alcuni soprattutto nelle piccole isole, dove le fonti sono rare ed è complicato rispondere alla richiesta di acqua durante la stagione turistica. Si preferiscono piccoli impianti in piccole isole soprattutto per una questione di consumo di energia e costi, molto elevati.
Secondo Acquedotto Pugliese, a Taranto non ci sono alternative alla dissalazione, l’intervento ritenuto più efficace e immediato per prevenire le crisi idriche e l’unico modo per avere una nuova fornitura d’acqua. La società assicura che gli impianti saranno alimentati totalmente da energia “verde”, cioè prodotta da fonti rinnovabili, tra cui un impianto fotovoltaico. L’energia consumata sarà pari a quella utilizzata da circa quattromila famiglie.
Negli ultimi mesi alcuni comitati e associazioni ambientaliste, tra cui il Comitato per la difesa del territorio jonico, hanno presentato ricorsi e osservazioni contro il progetto per il suo impatto ambientale ed economico, considerato eccessivo.
Uno dei rilievi riguarda il prelievo di acqua del dissalatore, che si aggiungerebbe a quelli già attivi per l’irrigazione dei campi e l’acciaieria ex ILVA: secondo le associazioni si toglierebbe troppa acqua al fiume Tara, facendolo scendere sotto la portata minima residua di 2.000 litri al secondo necessaria per mantenerlo in salute.
Il processo di desalinizzazione inoltre produrrebbe salamoia che deve essere fatta defluire in mare: pur essendo acqua con una salinità inferiore a quella del mare, le associazioni sostengono che il deflusso della salamoia sia sufficiente a modificare l’equilibrio chimico e biologico in una zona già fortemente compromessa dall’attività umana e in contrasto con la legge comunitaria sulla gestione delle acque. La salamoia, dicono i comitati e le associazioni, avrebbe un impatto anche per la flora e la fauna della zona, in particolare su specie come la lontra e il gambero di fiume.
Lo scorso gennaio la conferenza dei servizi si è conclusa con un parere favorevole a maggioranza, non all’unanimità: hanno votato contro il progetto l’ARPA, l’agenzia regionale per la protezione ambientale, e anche il ministero della Cultura sulla base di un parere della Soprintendenza secondo cui non sono state pensate misure di compensazione accettabili. Nell’area in cui dovrebbe essere costruito l’impianto è stato previsto di espiantare e, quando possibile, trapiantare altrove 957 ulivi. Anche il comune di Taranto ha approvato una mozione contro il progetto, mentre la regione Puglia ha dato un’autorizzazione in deroga ai pareri negativi.

Il rendering del dissalatore del fiume Tara (Acquedotto Pugliese)
Le associazioni sostengono anche che sia inutile investire oltre 100 milioni di euro quando in Puglia le perdite idriche sono circa del 50 per cento: significa che la metà dell’acqua immessa nella rete si perde a causa della scarsa manutenzione di condutture e impianti. Acquedotto Pugliese ha fatto sapere invece che la sistemazione delle reti idriche è già in corso grazie a un investimento di 72 milioni di euro, e che ritiene la sola riduzione delle perdite non sufficiente a coprire il fabbisogno idrico.
C’è poi la questione dell’aumento dei costi, passati da 98 a 129 milioni di euro. Il PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con fondi europei, mette a disposizione 27,5 milioni di euro, altri 70 sono garantiti dai fondi di sviluppo e coesione, assicurati sempre dall’Unione Europea. Il resto, ovvero i 31 milioni di euro in più rispetto all’investimento preventivato, sarebbe invece coperto da aumenti tariffari, in sostanza da un aumento delle bollette. A giugno il Comitato per la difesa del territorio jonico ha presentato un ricorso alla Commissione Europea per verificare la compatibilità del progetto con le norme comunitarie.



