La storia di uno dei reportage più importanti di tutti i tempi
Nel 1946 il giornalista statunitense John Hersey raccontò per la prima volta le devastanti conseguenze della bomba atomica su Hiroshima
di Rodolfo Toè

Dopo che gli Stati Uniti distrussero le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki usando due bombe atomiche, nell’agosto del 1945, per molti statunitensi non fu chiaro esattamente cosa fosse successo. Erano le prime atomiche a essere usate: non c’erano precedenti e nemmeno informazioni su cosa significasse essere l’obiettivo di un bombardamento di quel tipo. Poi nell’agosto del 1946 un giovane giornalista americano, John Hersey, pubblicò un lungo reportage dal titolo Hiroshima, che raccontava per la prima volta il bombardamento dalla prospettiva di sei sopravvissuti. Negli Stati Uniti ebbe un successo enorme e contribuì a chiarire la portata della distruzione.
Per molti americani, le bombe atomiche erano servite ad accelerare la fine della Seconda guerra mondiale, e questo faceva sì che in generale la loro opinione fosse molto positiva: un sondaggio fatto negli Stati Uniti alla fine della guerra mostrò che l’85 per cento degli intervistati sosteneva che bombardare le due città fosse stata una cosa buona.
Ottenere informazioni affidabili su quello che era successo era molto complicato: il governo statunitense controllava ormai il Giappone e non permetteva ai giornalisti giapponesi di pubblicare articoli per raccontare la situazione nelle due città. I rari giornalisti statunitensi a cui veniva consentito di visitarle lo facevano per lo più senza essere liberi di scegliere cosa vedere e cosa scrivere: ci andavano scortati dall’esercito e spesso evitavano di raccontare cose che dessero fastidio al governo.
I pochi articoli e filmati che parlavano di Hiroshima e Nagasaki si concentravano sulla ricostruzione, non sulle vittime, e se parlavano degli effetti delle bombe descrivevano per lo più la distruzione materiale, evitando di mostrare i danni subiti dalle persone.
Un buon esempio è questo servizio realizzato nel 1945, dopo il bombardamento di Hiroshima. Il filmato mostra quasi esclusivamente gli effetti materiali delle distruzioni: per un pubblico statunitense queste sequenze su Hiroshima non erano, in fondo, così diverse dalle immagini che avevano visto dopo il bombardamento di alcune città tedesche.
Molti negli Stati Uniti erano stanchi di sentir parlare della guerra, che era durata quasi quattro anni e aveva provocato centinaia di migliaia di morti. Non c’era conoscenza delle armi nucleari e l’idea prevalente era che la bomba atomica fosse un’arma semplicemente più efficiente di altre: più efficiente per esempio delle armi convenzionali usate per bombardare alcune città tedesche. In più, durante gli anni della guerra, i giapponesi erano stati spesso descritti come un popolo militarista e fanatico, e questo rendeva molto difficile empatizzare con loro.
Alcuni esperti minimizzarono la potenza distruttiva delle bombe, sostenendo che le vaste distruzioni potevano essere spiegate dalla scarsa resistenza degli edifici giapponesi. Gli Stati Uniti inizialmente sostennero anche che l’impatto delle radiazioni fosse stato minimo, cercando di rassicurare l’opinione pubblica. Leslie Groves era un generale a capo del progetto Manhattan, che sviluppò la bomba atomica: interrogato dal Senato statunitense alla fine del 1945, disse che secondo i medici la morte provocata dall’esposizione alle radiazioni era comunque «un modo molto piacevole» di morire.

L’equipaggio dell’Enola Gay, cioè il bombardiere che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, durante una parata militare a New York nell’aprile del 1946 (Getty Images/Keystone)
A cambiare le cose fu un lungo reportage pubblicato nell’agosto 1946 dal settimanale New Yorker, scritto da un giornalista che all’epoca aveva trentadue anni, John Hersey.
Hersey era nato in Cina in una famiglia di missionari protestanti, e durante la Seconda guerra mondiale era stato corrispondente per diversi settimanali statunitensi. Aveva vinto un premio Pulitzer, e grazie alle storie scritte durante la guerra negli Stati Uniti era considerato un «patriota». Entrambe queste circostanze gli resero più facile ottenere il permesso di visitare il Giappone nel 1946. Una volta lì, riuscì anche a ottenere il permesso di andare a Hiroshima, dove incontrò decine di sopravvissuti.
Hersey voleva raccontare il bombardamento di Hiroshima scrivendo di quello che era accaduto «agli esseri umani, non agli edifici». Lo fece descrivendo le esperienze di sei sopravvissuti: Masakazu Fujii, un dottore; Toshiko Sasaki, un’impiegata; Terufumi Sasaki, un chirurgo; Hatsuyo Nakamura, una vedova con tre bambini; Wilhelm Kleinsorge, un prete gesuita; e Kiyoshi Tanimoto, un pastore metodista.
Scrisse un reportage molto più lungo del previsto: circa 31mila parole (in pratica, era un piccolo libro: questo articolo, per dire, ne ha poco più di mille). Temendo che i lettori potessero perdere interesse se la storia fosse stata pubblicata a puntate, la redazione decise di pubblicarlo tutto in una volta. Così il New Yorker dedicò un intero numero, quello del 31 agosto 1946, solo a quel reportage. Dal momento che la decisione di pubblicarlo integralmente venne presa un po’ all’ultimo, non ci fu tempo di cambiare la copertina. Quel numero così uscì con una copertina che, in effetti, strideva con il contenuto: mostrava diverse persone che si divertono in un parco.
La copertina originale del New Yorker del 31 agosto 1946
Il reportage di Hersey racconta le esperienze dei sei sopravvissuti iniziando al momento dello scoppio della bomba, le 8:15 della mattina del 6 agosto. È un testo asciutto, senza valutazioni morali o personali dell’autore. Come tutti gli articoli del New Yorker dell’epoca, venne pubblicato senza foto. Nonostante ciò, Hersey riuscì a rendere in modo dettagliato le conseguenze del bombardamento e soprattutto dell’avvelenamento da radiazioni sulle persone di Hiroshima. Diversi episodi erano molto crudi, per esempio il racconto di come Tanimoto avesse cercato di aiutare una donna afferrandole una mano e «la pelle le si fosse sfilata a brandelli, come un paio di guanti».
Il reportage ebbe un successo enorme, anche perché raccontando le storie di singole persone permise a molti di immedesimarsi: quell’edizione del New Yorker andò esaurita quasi subito. La storia venne ristampata in un libro, che vendette milioni di copie e venne tradotto all’estero (in Italia è stato di recente ripubblicato da UTET). Più di ottanta giornali in tutto il mondo chiesero il permesso di ripubblicarla: venne loro concesso, a patto che non facessero tagli e che donassero il ricavato alla Croce Rossa. Il testo venne anche letto integralmente, in diverse occasioni, alla radio statunitense e alla BBC, nel Regno Unito. Tra i pochissimi paesi dove il reportage di Hersey fu invece letto molto poco ci fu l’Unione Sovietica, che dopo la Seconda guerra mondiale stava iniziando a competere con gli Stati Uniti e non voleva diffondere l’informazione che gli americani disponessero di un’arma così distruttiva.
In generale, l’articolo provocò una grandissima impressione nel pubblico statunitense: più di ogni altra cosa pubblicata fino a quel momento, infatti, Hiroshima dimostrò agli americani quali sarebbero state le conseguenze di una bomba atomica su una delle loro città.
Secondo molti, il reportage di Hersey fece iniziare il dibattito sulla produzione e sull’impiego delle armi nucleari in guerra. Ancora oggi Hiroshima è considerato uno dei reportage più importanti di tutti i tempi. Nel 1985, quarant’anni dopo lo scoppio della bomba, Hersey tornò in Giappone per scrivere anche una seconda parte, intitolata The Aftermath (“Le Conseguenze”), per raccontare come avevano vissuto i protagonisti del reportage originale nei decenni successivi e, attraverso le loro storie, i molti problemi dei sopravvissuti alle bombe atomiche, che per molto tempo in Giappone subirono diverse discriminazioni.



