La carta igienica di mia zia
«Infilzati di fianco alla “corda” del water in un aguzzo gancio da macellaio, i foglietti servivano per quello che ci si immagina data la posizione sulla parete. Ma a mia zia l’idea di evitare disboscamenti planetari non passava “neanche per l’anticamera del cervello”, come si dice. Le interessava solo non sprecare».

Le guide del telefono di molti anni fa erano libroni molto pesanti con mille fogli di carta sottile (meno di 40 grammi per m2, la metà di un foglio da stampante) e scivolosa, quasi patinata. Stampati fitti fitti in corpo piccolo come le quotazioni di borsa o i cinema sui quotidiani. Il primo elenco telefonico della storia, secondo Wikipedia, fu pubblicato il 21 febbraio 1878 a New Haven, Connecticut, ma era un foglio di 14×21 centimetri con i nomi dei 50 abbonati al primo centralino telefonico USA della storia. Le guide di Milano degli anni Sessanta, invece, erano in due grossi volumi, A-L e M-Z, e poi c’era lo “Stradale” con le pagine di carta verdolina, stessa grammatura.
(Il tipo di carta è importante).
Tutti gli anni – parlo dei primi decenni del dopoguerra – le nuove guide arrivavano gratis in portineria o venivano posate sullo zerbino, e qualche giorno dopo quelle dell’anno prima dovevano essere lasciate in portineria (o sul marciapiede) per il “conferimento” alla pubblica spazzatura indifferenziatissima. Qualche decennio dopo arrivarono anche le pagine gialle dedicate alle attività commerciali. Un’idea molto redditizia perché le aziende pagavano per essere graficamente evidenziate.
A casa di mia zia Carla (dagli adulti chiamata Carlottina nonostante l’età avanzata) durante le feste di Natale mi davano una lunga “coltella” (femminile, flessibile ma affilatissima e dalla punta arrotondata meno pericolosa) e mi mettevano sul tavolo della sala da pranzo a tagliare foglietti rettangolari di quelle pagine ormai obsolete, inutili, in formato 15×20, fitte di nomi e di numeri, impilandole in mucchietti di una cinquantina di fogli.

Zia Carla a Lerici (La Spezia), fine anni Cinquanta (archivio Antonio Stella)
La mattina le ritrovavo infilzate di fianco alla “corda” del water in un aguzzo gancio da macellaio a forma di S. In realtà la “corda” (“tirare la corda” vuole ancora dire far scorrere l’acqua nella tazza di ceramica oltre che “esagerare”, ex agger, fuori argine) era una catenella di metallo con a capo un pomello periforme di legno o di ceramica.
I foglietti dell’ex elenco telefonico servivano per quello che ci si immagina data la posizione sulla parete. Con una efficienza detergente pessima e una sensazione tattile spigolosa, pungente e scricchiolante, sgradevolissima. Ma non c’erano alternative, anche se il rotolo di carta igienica era già stato brevettato a New York da un certo Wheeler a fine Ottocento. Erano ancora lontano l’edonismo dei “dieci piani di morbidezza”, il famoso spot della Scottex degli anni Ottanta.
Ai tempi in cui io ero bambino la carta igienica era un articolo “di lusso” che mia zia (che se lo poteva benissimo permettere, nonostante le modeste origini) non voleva permettersi, disponendo gratis di migliaia di pagine che altrimenti sarebbero finite al macero e di un nipote ubbidiente che non aveva niente da fare (per mia fortuna i miei zii erano senza figli, infatti una cinquantina di anni più tardi un non indifferente conquibus arrivò per testamento. Che sedere!, verrebbe da dire).
Potrei qui dilungarmi sull’argomento, discettare su dove posizionare il rotolo, su come risparmiare spazio, sulle ragioni per cui la diffusione del bidet non determina sempre un calo, anzi, nel consumo di carta, ma non lo faccio perché sulla questione il Post ha già spiegato tutto o quasi.
Me la caverò, quindi, con una sfilza di…
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Ma a parte l’ovvio, che tutti, proprio tutti, sappiamo e che non è qui il caso di ricordare e spiegare, piegare e ripiegare nei particolari e nelle soggettive molteplici varianti di uso, ci sono altri impieghi alternativi del rotolo, di solito bianco nonostante le migliaia di variazioni grafiche e cromatiche proposte. Tra questi, verificato recentemente di persona, di eccellente design non firmato, quello di tenere chiusa la mascella dei cadaveri esposti alla vista dei parenti: trattenuto dietro il collo da una cordicella, il rotolo di carta igienica può avere la funzione – efficace, economica e inaspettata – di non fare aprire la bocca al morto.
Certo, il “riciclo” di mia zia Carla era pro domo sua. Molto casalingo. L’idea di riutilizzare la carta delle guide del telefono per evitare disboscamenti planetari, inquinamento, non le passava «neanche per l’anticamera del cervello», come si dice di solito, curiosamente. Le interessava solo – era da poco finita la guerra – non sprecare. Guai a sprecare. Mi pare di ricordare, infatti, e amici me lo confermano, che in alcuni bar tabacchi di periferia per la stessa funzione ablativa venivano infilzate vicino al water o più spesso alla ‘turca’ le schedine del Totocalcio rimaste invendute.

Zio Gianni e zia Carla in vacanza sulla Dolomiti sopra Selva di Val Gardena (Bolzano). Fine anni Cinquanta (Archivio Antonio Stella)
Qualunque idea utile a risparmiare doveva essere colta. Fossero anche fiammiferi usati. O il retro delle buste aperte della corrispondenza che, in quanto prevalentemente bianche, venivano riutilizzate per prendere appunti come fossero fogli intonsi. O i tappi di sughero intagliati a cuneo come spessori dagli usi più diversi. Quello della zia era un microriciclo diffuso e programmatico, direi quasi metodologico. Mi ricordo che ci capitava di ricevere dallo zio, laureato, copie della Settimana Enigmistica (risolte e compilate leggére, a matita) con le soluzioni cancellate con la gomma per poter essere riutilizzate da amici e parenti… o da mia zia che cercava invano di leggere l’impronta delle soluzioni.
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Niente a che vedere con le sofisticate metodologie e tecnologie di oggi per riutilizzare, invece di smaltirli, i rifiuti casalinghi e industriali. Oggi il riciclo (da non confondersi con il riciclaggio e nemmeno con il triciclo) è volto alla “sostenibilità”. La sua ideologia, invece che sul risparmio, punta a ridurre il consumo di materie prime e di energia e la produzione di sostanze inquinanti riutilizzando le cose e le materie di cui sono fatte invece di smaltirle in discarica o negli inceneritori. Il riciclo si è fatto da micro a macro, ed è diventato un problema e un’industria globale di proporzioni planetarie.
Non è un tema nuovo. Gli archeologi hanno trovato i resti di magazzini-discariche dove venivano conservati ceramiche rotte, strumenti di lavoro, metalli come il bronzo che, fusi, venivano riutilizzati, per sopperire all’antica scarsità di risorse. Leggo che in Regno Unito (per esempio) la cenere dei camini veniva utilizzata per la produzione di mattoni. Ricordo personalmente che nei primi anni ’70, in qualche “comune” hippie dove mi ero trovato per caso, la cenere delle braci veniva usata come detersivo per lavare le stoviglie senza ricorrere ai prodotti già allora reclamizzati senza pietà in televisione.
Se nei paesi coinvolti nella Seconda guerra mondiale chiesero ai cittadini di donare ogni genere di metalli e non solo, in Italia Mussolini ci aveva già pensato il 18 dicembre 1935, quando chiese alle donne di donare alla Patria le loro fedi matrimoniali (in milanese “vere”). Durante la guerra il Regno Unito puntò anche sul riciclo della carta (Paper Salvage) che chiese dal 1939 fino al 1950, con lo scopo dichiarato di ricavarne componenti per fabbricare munizioni e bombe a mano. Per quanto diffuso, però, si trattava ancora di un modo di riciclare episodico, dettato da emergenze, non di una pratica quotidiana (come quella di mia zia con le guide del telefono e la Settimana Enigmistica, o di tutti noi che oggi dividiamo i rifiuti per tipologie, peraltro variabili da regione a regione) né di una metodologia industriale (come quella con cui i rifiuti differenziati vengono raccolti e lavorati per ricavarne altro di vivo).
La cosa strana è che questa industrializzazione del riciclo dei rifiuti si regge sull’ideologia e l’estetica della riparazione che non ha nulla a che fare con l’industrializzazione di cui sopra, ma può prendere molte forme: cassonetti dove infilare gli abiti e le scarpe vecchie da destinare ai più poveri (nel Vangelo si sarebbe detto agli “ignudi”); negozi vintage che oggi, sempre più spesso, offrono a prezzi più bassi oggetti con marchi di lusso altrimenti proibitivi a chi vuole indossarli ma non può permetterseli; artisti come Jannis Kounèllis (Pireo 1936-Roma 2017), maestro dell’arte povera che mette insieme, trasformandole in opere d’arte, pezzi di ferro o ceramiche rotte; e infine, sempre a proposito di ceramiche rotte, laboratori di kintsugi, la rinomata arte giapponese che prevede il recupero delle imperfezioni e la valorizzazione dei cocci, per trasformarne crepe e imperfezioni in elementi decorativi, dando corpo a una delle parole più diffuse del nostro tempo – “resilienza” – di cui mia zia Carla, nonostante la sua costanza e la sua arte nel trasformare le guide telefoniche in carta igienica, non avrebbe saputo indovinare il significato.

Zio Gianni e zia Carla in gita al Santuario Santa Maria di Monte Berico (Vicenza). Fine anni Cinquanta (archivio Antonio Stella)
In ogni modo, per sintetizzare un tema molto specialistico e complesso, da quel che ho capito si possono riciclare e quindi riutilizzare il legno, la carta e il cartone che dal legno derivano, i tessuti naturali, il vetro, i metalli, i rifiuti organici. Certo la carta delle guide telefoniche di mia zia, una volta riutilizzata nella fattispecie che abbiamo descritto chissà che fine fa. E non lo voglio sapere.
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