Cosa avrebbe rischiato l’Italia se non avesse liberato Almasri?

Ora il governo dice che temeva ritorsioni contro gli italiani in Libia, ma per il tribunale dei ministri non basta

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni col sottosegretario Alfredo Mantovano, responsabile dei servizi segreti, a Palazzo Chigi, il 7 settembre 2023 (Fabio Frustaci/ANSA)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni col sottosegretario Alfredo Mantovano, responsabile dei servizi segreti, a Palazzo Chigi, il 7 settembre 2023 (Fabio Frustaci/ANSA)
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«Smentisco, nella maniera più categorica, che […] il governo abbia ricevuto alcun atto o comunicazione che possa essere anche solo lontanamente considerato una forma di pressione indebita assimilabile a minaccia o a ricatto da parte di chiunque». Il 5 febbraio scorso il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi negò in questo modo perentorio che il governo italiano avesse ricevuto minacce per convincersi a liberare e rimpatriare Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica, nonostante fosse accusato dalla Corte penale internazionale di omicidi, torture, stupri e altri gravi crimini. Era stato arrestato due giorni prima a Torino.

Per questa storia il tribunale dei ministri ha messo sotto indagine lo stesso Piantedosi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Ora ha chiesto per loro l’autorizzazione a procedere: cioè in sostanza ha chiesto al parlamento se può rinviarli a giudizio (con ogni probabilità dirà di no), accusandoli di diversi reati. Quello che è emerso dall’atto in cui viene chiesta l’autorizzazione a procedere però è che in questi mesi il governo ha difeso la propria decisione sostenendo proprio la tesi opposta a quella sostenuta da Piantedosi a febbraio: il tribunale dei ministri dice che tenendo in carcere Almasri il governo italiano temeva «possibili ritorsioni per i cittadini e gli interessi italiani in Libia».

La contraddizione è in realtà meno evidente di quel che appare. Piantedosi faceva riferimento a minacce o a ricatti concreti; i timori di cui parla il tribunale invece riguardavano conseguenze solo paventate, e alimentate dalle analisi fatte dal direttore dell’AISE (i servizi segreti per l’estero), Giovanni Caravelli.

Lo stesso Piantedosi disse che le scelte del governo erano state fatte «in base a valutazioni compiute su fatti e situazioni, anche in chiave prognostica». Nel linguaggio un po’ fumoso del ministro, quel “in chiave prognostica” significa un po’ la stessa cosa: non c’erano state minacce, ma non si potevano neppure escludere ritorsioni.

Il progressivo cambiamento della versione dei fatti del governo è stato però sempre più notevole: inizialmente la stessa Meloni aveva detto che la scelta di liberare e rimpatriare Almasri era stata motivata da vizi di forma procedurali nelle richieste della Corte penale internazionale e di scelte della magistratura italiana; nel corso dei mesi invece è stata sostenuta sempre di più la tesi che ci fossero ragioni di sicurezza nazionale, cioè legate agli interessi italiani in Libia.

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Nelle prime dichiarazioni pubbliche fatte da Nordio e Piantedosi, così come nelle loro relazioni ufficiali al parlamento, questo aspetto era assente o del tutto marginale. Anche quando un giornalista molto vicino a Meloni come Bruno Vespa espose questa tesi con grande veemenza su Rai 1, nessuno dei leader della maggioranza di destra la sostenne.

Il 25 febbraio, oltre un mese dopo il rimpatrio di Almasri, per la prima volta i membri del governo indagati avevano detto in una nota difensiva inviata al tribunale che la «pericolosità sociale» di Almasri si desumeva anche dalle segnalazioni fatte dai servizi segreti. Venivano citati stralci di un documento riservato redatto dall’AISE sulla RADA Force, cioè la milizia paragovernativa guidata da Almasri, e sui possibili pericoli per la comunità italiana e gli interessi economici dell’Italia in Libia.

Il 20 luglio, in una nuova memoria difensiva, questo riferimento veniva fatto in modo più concreto: i membri del governo indagati avevano giustificato la loro condotta in virtù dello stato di necessità, rifacendosi all’articolo 25 di una disposizione delle Nazioni Unite del 2001 che sostanzialmente consente a uno Stato di contravvenire al diritto internazionale se questo è l’unico modo che quello Stato ha per salvaguardare un interesse essenziale da un grave e imminente pericolo.

A febbraio il governo aveva insomma negato che Almasri fosse stato rilasciato per una sorta di indicibile ragione di Stato, a luglio quella era diventata la sua tesi principale.

Il direttore dell’AISE Giovanni Caravelli in audizione davanti al comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, l’11 febbraio 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Ma i ministri coinvolti nella faccenda erano a conoscenza fin dall’inizio dei rischi legati all’arresto di Almasri. Il 19 gennaio, e cioè appena poche ore dopo l’arresto di Almasri a Torino, ci fu una riunione con vari ministri, i loro collaboratori e i dirigenti dell’intelligence: in quell’occasione il direttore dell’AISE Caravelli disse di aver ricevuto segnali preoccupanti da sue fonti libiche. Caravelli parlò di «una certa agitazione» che stava montando all’interno della RADA, dopo la diffusione della notizia dell’arresto di Almasri.

Come ha poi riferito al tribunale dei ministri, il direttore dell’AISE aveva spiegato a tutti i partecipanti alla riunione che Almasri era un elemento di vertice della RADA, una polizia giudiziaria alle dipendenze dell’ufficio del procuratore generale di Tripoli ma anche, come avviene spesso in Libia, una milizia che risponde ad altri interessi. Disse che operava in quartieri nevralgici di Tripoli, tra i quali quelli in cui avevano sede l’ambasciata italiana e la residenza dell’ambasciatore Gianluca Alberini. Inoltre, la RADA controllava l’aeroporto di Mitiga, il più importante della capitale, e gestiva il carcere speciale che stava lì vicino, all’interno del quale vengono abitualmente commessi crimini di varia natura.

L’AISE, proseguì Caravelli, aveva (e ha) con la RADA una collaborazione molto proficua: servendosi di informazioni e personale di quella milizia, infatti, i servizi segreti italiani a Tripoli lavorano per contrastare il traffico di esseri umani, droga e petrolio, e per prevenire attività terroristiche. L’AISE aveva ottenuto aiuto dalla RADA anche per la cattura di un latitante, Giulio Lolli, nel 2017.

Davanti alle giudici del tribunale dei ministri Caravelli aveva negato di «aver ricevuto notizia di specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani in Libia», aggiungendo però che c’erano possibili rischi di ritorsioni nei confronti dei circa 500 italiani che vivono o lavorano in Libia. In particolare, c’era una certa preoccupazione sulle attività e sui dipendenti dell’ENI, la società pubblica di idrocarburi che in Libia ha enormi interessi, e soprattutto per lo stabilimento di Mellitah, a ovest di Tripoli, dove il servizio di sicurezza era gestito da milizie vicine alla RADA.

Uno scorcio dello stabilimento dell’ENI a Mellitah, tratto da Google Maps

Inoltre, dal momento che la RADA operava anche come polizia giudiziaria, avrebbe facilmente potuto arrestare in maniera pretestuosa alcuni cittadini italiani come ritorsione: questa prospettiva appariva quanto mai preoccupante per il governo, visto che era stata la stessa dinamica di ritorsione (la cosiddetta diplomazia degli ostaggi) che un mese prima aveva portato al rapimento della giornalista Cecilia Sala in Iran.

Le reticenze e le contraddizioni che hanno caratterizzato le varie versioni fornite dal governo su questa faccenda rendono al momento piuttosto complicato stabilire quanto quelle minacce fossero concrete, e quanto invece siano state utilizzate in modo strumentale per giustificare il rilascio di Almasri. Di certo nella versione fornita da Caravelli c’è una apparente stranezza che è stata in parte rilevata dalle giudici.

Non è chiaro infatti perché i servizi segreti italiani non avessero raccolto informazioni adeguate per intervenire in maniera tempestiva e coordinata su Almasri, vista la pericolosità sua e della milizia di cui era a capo. Caravelli ha ammesso che Almasri era «una figura di spicco e molto ben considerata», ma che l’AISE non era a conoscenza che ci fosse un’indagine su di lui da parte della Corte penale internazionale.

Emerge anche uno scarso coordinamento tra i servizi segreti, la Polizia e i ministeri dell’Interno e della Giustizia. Almasri venne arrestato a Torino poco dopo le 2 di notte del 19 gennaio, ma già il giorno prima era stato fermato dalla polizia mentre era in auto con tre suoi amici libici in centro a Torino, per un controllo casuale. Se davvero il suo profilo era così noto, e la sua pericolosità così elevata, è strano che lo si sia lasciato circolare per Torino, andare allo stadio a vedere una partita di Serie A tra Juventus e Milan, e poi arrestato senza che i servizi segreti ne fossero preallertati.

C’è infine un’altra stranezza nell’atteggiamento del governo. Se il rilascio e il rimpatrio di Almasri erano motivati da interessi nazionali, non si capisce perché per giustificarli non sia stato messo il segreto di Stato sul caso: un istituto che ha regole precise e che avrebbe di fatto consentito di bloccare le indagini da parte della magistratura italiana. L’informazione che Mantovano avesse valutato di ricorrere al segreto di Stato era anche trapelata, ma si era capito che poi l’ipotesi era stata scartata per volere di Meloni.

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Alla fine il segreto di Stato non è mai stato messo sul caso di Almasri. Anche per questo l’indagine del tribunale dei ministri è stata condotta fino in fondo. Le giudici del tribunale dei ministri hanno ritenuto comunque che il pericolo paventato di ritorsioni ai danni di cittadini italiani e di interessi nazionali in Libia non valga a scriminare, cioè a giustificare e dunque a non rendere penalmente perseguibile, la condotta di Nordio, Piantedosi e Mantovano: per questo sono anche accusati di favoreggiamento nei confronti di Almasri, cioè di averlo aiutato a sottrarsi alle indagini della Corte penale internazionale.