I grandi dibattiti di Internet non sono grandi e non sono dibattiti
Anche lo spunto più debole può diventare una discussione prevedibile con posizioni assurde e senza interlocutori reali

Una campagna pubblicitaria dell’azienda di jeans American Eagle con l’attrice Sydney Sweeney è diventata nei giorni scorsi un esempio molto chiaro e citato di un fenomeno sempre più frequente su Internet. Uno spunto qualsiasi, anche un fatto marginale, può diventare argomento di un dibattito enorme, pretestuoso e con posizioni assurde perché, in pratica, trasformarlo in un contenuto divisivo è nell’interesse di diverse parti contrapposte o coinvolte in quel dibattito: piattaforme, aziende, utenti dei social media, influencer, media tradizionali, politici.
Stavolta tutto è cominciato dal gioco di parole nello slogan della campagna pubblicitaria: «Sydney Sweeney has great jeans» (Sydney Sweeney ha degli ottimi jeans). Il gioco di parole è tra jeans e genes, che suona allo stesso modo e significa “geni”: Sweeney insomma avrebbe sia ottimi jeans che ottimi geni, come esplicitato da alcune pubblicità della serie. Qualcuno ci ha visto un subdolo tentativo di affermare la superiorità genetica dei bianchi e la bellezza femminile tradizionale, e lo ha detto sui social media. Cosa è successo dopo succede più o meno ogni volta, in casi distinti ma sostanzialmente identici tra loro.
La sequenza degli eventi è sempre la stessa. Su un certo fatto che di per sé lascerebbe la maggior parte delle persone tiepide o indifferenti, i media costruiscono una presunta polemica isolando e rilanciando le opinioni più estreme e sovraesposte, espresse da individui consapevoli che più sono estreme le loro opinioni, più è probabile che saranno rilanciate.
A quel punto anche le persone che avevano trascurato il fatto o non ne sapevano niente sono portate a pensare che sia una questione realmente e largamente dibattuta. E partecipano a loro volta al “dibattito”, partendo dal presupposto che le posizioni più assurde siano estesamente condivise, o comunque molto più diffuse e comuni di quanto siano in realtà. La discussione – una discussione che di fatto in pochissimi stanno avendo con altri pochissimi – si autoalimenta perché è composta da contenuti il cui principale obiettivo, se non l’unico, è ricevere attenzioni stimolando indignazione.
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È un discorso che vale per gli Stati Uniti, ma non solo, perché la stessa cosa succede anche altrove seguendo lo stesso schema. Inoltre molti dibattiti americani sono spesso importati in altri paesi, con ulteriori complicazioni, storture e strumentalizzazioni. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano Matteo Salvini, per esempio, ha scritto della pubblicità dei jeans sui suoi canali social senza citare né l’azienda né l’attrice, solo per dire che «negli Stati Uniti è scoppiata una polemica per questo spot tv» e che «sinistra e femministe lo hanno definito persino “fascista” e stereotipato».
I fatti discussi di volta in volta sono sostanzialmente irrilevanti rispetto agli interessi di chi alimenta la discussione: sono soltanto dei pretesti per portare avanti uno scontro culturale più ampio. Né alla destra, né alla sinistra importa l’appartenenza politica di Sweeney: è bastato che fosse una donna bianca, bionda e con tette più grandi della media per fare «uscire completamente di testa gli americani di tutto lo spettro ideologico», ha scritto Nate Jones su Vulture.
Dello stesso argomento ha scritto anche il giornalista Charlie Warzel sull’Atlantic, riassumendo i passaggi che portano ai dibattiti e includendo il suo stesso articolo nel circolo vizioso di contenuti sulle guerre culturali.
«I progressisti manifestano la loro sincera indignazione. I reazionari rispondono a tono catalogando quell’indignazione e usandola per rappresentare i loro avversari ideologici come isterici, esagerati e fuori dalla realtà. Poi, i creatori di contenuti più scaltri si attaccano al discorso di tendenza e cavalcano le onde algoritmiche di TikTok, X e qualsiasi altra piattaforma. Emerge un’altra fazione: persone che concordano politicamente con chi è indignato per Sydney Sweeney, ma che vorrebbero invece incanalare la loro rabbia verso i veri nazisti. Intanto i media sondano il terreno e cercano di riassumere queste conversazioni in contenuti cliccabili – cercate Sydney Sweeney nella scheda “Notizie” di Google, e capirete».
Secondo Warzel Internet ha sconvolto il dibattito politico e culturale a tal punto da rendere impropria la parola: non c’è nessun dibattito, non ci sono persone che si parlano. È una specie di dibattito asincrono senza ascoltatori, composto solo da partecipanti che esprimono la loro opinione, che diventa poi oggetto delle dichiarazioni di qualcun altro. Anche uno spunto legittimo di conversazione, diventa qualcosa di completamente diverso una volta che finisce nel «tritacarne» di Internet: un’occasione per indignare e sconvolgere le persone su larga scala.
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In questo ecosistema informativo vive in pratica chiunque abbia uno smartphone: utenti comuni, aziende, politici, influencer e celebrità. E questo significa che il principio alla base di tutto l’ecosistema, cioè attirare l’attenzione sulle piattaforme online, è lo stesso per qualsiasi attività: promuovere un jeans, convincere gli elettori, fare attivismo, vendere abbonamenti a servizi di streaming o altro.
I contenuti ovviamente non esistono in una bolla scollegata dalla realtà, ma riflettono paure, frustrazioni e conflitti presenti nella società, latenti o meno. C’è una ragione se i critici della pubblicità di American Eagle sono così iperbolici, ha scritto Jones su Vulture: è perché «si sentono minacciati – abbastanza ragionevolmente – da un’amministrazione autoritaria che sta ridando al paese un’immagine nazionalista bianca». E quando le persone si sentono minacciate, «si scagliano contro qualsiasi cosa si trovino davanti», anche una pubblicità in sé piuttosto insignificante.
È anche molto probabile che i vari creatori di contenuti siano perfettamente consapevoli di questa situazione, a tutti i livelli, e tentino di sfruttarla a proprio vantaggio. La pubblicità di American Eagle, per esempio, sembra in effetti fatta apposta per generare attenzioni e controversie online, pensata da un direttore del marketing a conoscenza di come Sweeney fosse percepita da una parte dell’opinione pubblica. Da tempo la destra la usava già come un simbolo culturale per dimostrare il successo dell’estetica e dei valori tradizionali (riparare auto è uno dei suoi hobby, ed è cresciuta in una città dello stato di Washington a ovest delle Montagne Rocciose, una regione spesso associata a valori conservatori).
Anche i media sfruttano la situazione a proprio vantaggio, pubblicando spesso frettolosamente contenuti che descrivono le posizioni contrapposte nel presunto dibattito. Per farlo selezionano gli esempi di indignazione più estremi sui social, senza preoccuparsi se chi la esprime è un personaggio pubblico con decine di migliaia di follower o un utente qualsiasi con un seguito molto più limitato. E questa amplificazione dell’indignazione distorce il dibattito, perché concentra l’attenzione su pochi account che permettono di far apparire rilevante una questione altrimenti insignificante.
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Anche se i social media lo fanno sembrare un processo sensato e «democratico», conclude Warzel, non c’è niente di produttivo in questo tipo di dibattito se non continuare a fornire pretesti per alimentarlo. «Ciò che consumiamo non è discorso; è farina per i mulini algoritmici che alimentano le piattaforme su cui abbiamo caricato le nostre conversazioni», una farina «fatta di tutte le nostre reali ansie politiche e culturali, macinate fino a perdere ogni significato».



