In Lesotho è bastato l’annuncio dei dazi di Trump per devastare l’economia
Nel paese africano decine di migliaia di persone hanno perso il lavoro, e il governo ha dichiarato lo stato di «disastro nazionale»

Ad aprile il Lesotho, piccolo stato dell’Africa meridionale, era stato quello su cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva imposto i dazi più alti del mondo, dopo quelli alla Cina. Quei dazi del 50 per cento non sono mai entrati in vigore, e negli scorsi giorni l’amministrazione Trump li ha abbassati al 15 per cento.
Ma la semplice possibilità di questi dazi negli ultimi mesi è stata sufficiente a devastare l’economia del paese: a luglio il governo ha dichiarato lo stato di «disastro nazionale», dopo che migliaia di persone hanno perso il lavoro a causa delle politiche statunitensi.
Il principale settore economico del Lesotho è l’industria tessile, che impiega il maggior numero di persone e la cui produzione è quasi interamente destinata all’esportazione. Nel 2000 il Lesotho aderì all’African Growth and Opportunity Act (AGOA), una legge approvata dal Congresso statunitense durante l’amministrazione del Democratico Bill Clinton che consente ad alcune nazioni dell’Africa centrale e meridionale di esportare merci negli Stati Uniti senza dover pagare dei dazi. Da allora nel paese si sono insediate decine di industrie che producono abbigliamento per marchi come Levi’s, Gap, Children’s Place, Lee e Wrangler, fra gli altri.
Anche alcune delle polo della marca Greg Norman che fanno parte della linea “Trump Golf” sono prodotte in Lesotho.

Una fabbrica di jeans in Lesotho, 3 luglio 2025 (Per-Anders Pettersson/Getty Images)
Quando ad aprile Trump ha annunciato i dazi contro il paese, l’industria tessile è praticamente collassata. Anche se i dazi del 50 per cento non sono mai entrati in vigore, i clienti statunitensi hanno ritirato i propri ordini e migliaia di persone si sono trovate senza lavoro. Alcune fabbriche hanno chiuso, altre hanno licenziato migliaia di lavoratori. Prima dei dazi gli impiegati nel settore tessile erano circa 50mila, secondo i dati del governo. In pochi mesi, a causa dei dazi, si sono ridotti a 36mila.
Molte delle persone che hanno mantenuto il proprio lavoro si sono viste comunque ridurre gli orari perché gli ordini sono diminuiti: lavorano una o due settimane al mese e ricevono un salario dimezzato, o ancora inferiore.
Il Lesotho ha 2,3 milioni di abitanti ed è uno dei tre paesi sovrani al mondo a essere un’enclave: è cioè completamente circondato da un altro stato, il Sudafrica (gli altri due sono San Marino e Città del Vaticano). È poco più grande dell’Albania e indipendente dal 1966, dopo circa un secolo di dominio britannico. Oggi è una monarchia costituzionale economicamente poco sviluppata: quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Trump alcuni mesi fa (prima di imporre i dazi) definì il Lesotho un paese «di cui nessuno ha mai sentito parlare».
Lo stato di «disastro nazionale» consente al governo di allocare fondi d’emergenza per alleviare la disoccupazione, stimolare l’economia e sostenere le imprese. A giugno il primo ministro Sam Matekane ha presentato un piano per creare 70mila posti di lavoro per i giovani, ma finora senza nessun effetto.
Alle conseguenze dei dazi in Lesotho si aggiungono quelle dei tagli fatti dagli Stati Uniti agli aiuti umanitari e all’assistenza per lo sviluppo. Negli scorsi mesi l’amministrazione Trump ha smantellato USAID, l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti, che nel paese aveva attivi programmi sanitari per le persone malate di AIDS o con l’HIV.
Il Wall Street Journal ha raccontato per esempio la storia di Lieketseng Billy, una donna sieropositiva che lavorava in una fabbrica tessile, ma è stata licenziata a giugno. Per anni Billy aveva ricevuto supporto sanitario da una clinica finanziata dagli Stati Uniti, che ogni sei mesi le consegnava gratuitamente i farmaci antiretrovirali necessari per tenere sotto controllo l’HIV. L’ultima volta che si è presentata alla clinica, a giugno, le hanno dato una scorta soltanto per tre mesi. «Mi hanno detto che quando tornerò mi daranno forse una scorta per un mese, o per qualche settimana», ha detto.



