• di Emanuele Nicolotti
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 30 luglio 2025

Le case dove abbiamo vissuto

«Non sarà, forse, che a causa della crescente precarietà degli affitti, anche l’appartamento stia lentamente scivolando verso la condizione di nonluogo, dimenticabile come una stanza d’albergo alla fine di una vacanza? E se fosse vero, cosa dice di noi questa tendenza?»

Un ombrellone rosso sul balcone di un appartamento per il caldo in Germania. Berlino, 1 luglio 2025 (Sean Gallup/Getty Images)
Un ombrellone rosso sul balcone di un appartamento per il caldo in Germania. Berlino, 1 luglio 2025 (Sean Gallup/Getty Images)
Emanuele Nicolotti
Emanuele Nicolotti

È scrittore e ricercatore. Ha collaborato con Il Tascabile, con la rivista inglese Anima Loci e ha scritto testi teatrali per diverse istituzioni europee. Vive a Berlino.

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Qualche sera fa mi è capitato di rivedere Mystery Train di Jim Jarmusch, uscito nel 1989. All’inizio del film, Mitsuko e Jun, una coppia di giapponesi ossessionati da Elvis, arrivano in un hotel di Memphis per iniziare un viaggio nei luoghi in cui è cresciuto il “re del rock and roll”. Quando arrivano, è notte. Vengono accompagnati alla loro stanza dal facchino dell’albergo e, una volta soli, si incagliano immediatamente in un tempo immobile, tipico da hotel.

Seduta sul pavimento, Mitsuko si distrae incollando su un quadernetto immagini di Elvis ritagliate da giornali. Mentre Jun, visibilmente annoiato, comincia a scattare decine di fotografie alla stanza. Incuriosita, Mitsuko gli chiede: «Perché fai foto solo alle stanze in cui soggiorniamo e mai a quello che vediamo fuori mentre viaggiamo?». Jun le risponde: «Quelle cose sono nella mia memoria. Le camere d’albergo e gli aeroporti sono le cose che dimenticherò».

Purtroppo non ho avuto la stessa lungimiranza di Jun e col tempo ho finito per dimenticare molte cose. Come lui, mi riferisco ora alle camere d’albergo, così come agli ostelli, agli Airbnb, a tutte quelle soluzioni temporanee che danno vita allo sfaccettato universo dell’hospitality industry. Tuttavia, mentre faccio pace con l’idea di aver dimenticato parecchi di questi luoghi di passaggio, mi rendo conto che per qualche motivo molti appartamenti hanno fatto la stessa fine.

Parlo di veri e propri appartamenti in cui ho vissuto per periodi ben più lunghi, da quando ho lasciato casa dei miei oltre vent’anni fa. Vent’anni che ho trascorso principalmente in tre città — Venezia, Bruxelles, Berlino — e sempre alle prese con contratti d’affitto precari, spesso scritti a mano, o non scritti per niente. Molti di quegli appartamenti che in teoria avrebbero dovuto lasciare un segno nella mia storia, nella mia memoria, ora senza fotografie che mi aiutino a ricordarli, li ho dimenticati proprio come fossero stanze d’albergo, nonluoghi anonimi e transitori.

È stata proprio questa presa di coscienza, l’altra sera mentre guardavo quel film, a farmi sorgere un dubbio. Non sarà, forse, che a causa della crescente precarietà degli affitti, anche l’appartamento stia lentamente scivolando verso la condizione di nonluogo, dimenticabile come una stanza d’albergo alla fine di una vacanza? E se fosse vero, cosa dice di noi questa nuova tendenza?

Ricordo il mio primissimo contratto d’affitto, firmato all’età di ventidue anni. Ero appena arrivato a Venezia, lasciandomi alle spalle un paesino piemontese in provincia di Novara. Di lì a pochi giorni avrei cominciato la laurea specialistica. Il proprietario di casa, un uomo sulla sessantina, mi diede appuntamento nel suo studio. Uno stanzone elegante al secondo piano di un palazzo in Campo San Luca, sopra il negozio di biscotti della sua famiglia.

Tra me e lui aprì un enorme registro, di quelli con la copertina rigida rivestita in pelle che mi ricordava il libro dei conti di mio nonno panettiere. Con il dito passò in rassegna decine e decine di appartamenti che aveva in affitto in giro per la laguna veneta. Tutto annotato a mano, una calligrafia d’altri tempi: date, costi, nomi, indirizzi, numeri di telefono.

Il suo dito si fermò sull’appartamento che interessava a me: un cinquanta metri quadrati diviso in tre stanze minuscole e un cucinino insignificante, nel sestiere di Castello. Disse: «Sono 1200 euro al mese in tutto». Non avevo ancora trovato i due coinquilini con cui avrei diviso quella cifra. Mi allungò un contratto illeggibile, per lo più scritto a mano, fotocopiato e rifotocopiato, con parti cancellate grossolanamente con evidenziatore nero. Mi chiese di leggerlo. Feci finta. Scrissi in tutta fretta i miei dati dove trovai (a fatica) un po’ di spazio bianco.

L’informazione più importante me la disse a voce: si riservava il diritto di cacciare me e miei futuri coinquilini da un momento all’altro, senza preavviso e senza restituzioni dei due mesi di caparra, se qualcosa fosse andato storto. Sorrisi. Firmai. Ero felice. Quello era il mio primo contratto d’affitto.

Non lo potevo ancora sapere, ma quell’istante avrebbe dato il via a una relazione complicata, fatta di insulti e continue minacce di sfratto. Qualche giorno dopo, infatti, scoprii che non c’era modo di installare Internet, perché l’appartamento non era allacciato alla linea telefonica. Niente da fare, il proprietario non ne voleva sapere. Quell’inverno, si rifiutò anche di sostituire la caldaia non funzionante, costringendo me e i miei due coinquilini a dormire indossando giacche a vento e a contare sulla bontà d’animo di compagni di corso e amici per una doccia calda. Infine, i due idraulici che mandò senza preavviso verso fine febbraio a sostituire il boiler mangiarono tutto quello che trovarono nella dispensa e fecero fuori una mia bottiglia di Vecchia Romagna non ancora aperta. Alle mie proteste, il proprietario di casa rispose ridendomi in faccia: «Ecchessarammai? Vuoi dieci euro indietro?».

Ho odiato quell’appartamento. Vi passai due anni e mezzo cercando di trascorrerci meno tempo possibile. Quando finalmente lo lasciai, ero sollevato. A mai più rivederci.

Lasciata l’Italia, pensavo che la situazione sarebbe stata diversa, e invece non fu così. Dopo un’altra spiacevole esperienza, questa volta a Bruxelles, in un malridotto appartamento nel quartiere di Forest (uno di quegli appartamenti di cui non ho fotografie che mi aiutino a ricordare), arrivai in Germania nel 2013. Anche qui, presto dovetti fare i conti con normative e leggi flessibili abbastanza da permettere ai proprietari di casa di trovare escamotage sempre più creativi per complicare la vita degli affittuari.

(foto Emanuele Nicolotti)

Innanzitutto, è bene sapere che la normativa sugli affitti in Germania non impone una durata minima obbligatoria per i contratti di locazione. Esistono condizioni che permettono contratti temporanei che vanno da pochi giorni a qualche mese, conosciuti come Zeitmietvertrag, Zwischenmiete o Beherbergungsvertrag. Il prezzo degli affitti è tecnicamente regolamentato dal Mietpreisbremse (“freno degli affitti”), che non consente di superare di più del 10 per cento la media del quartiere. Come spiega un articolo di Rivista Studio, però, questa misura non si applica alle «case già arredate che vengono messe in affitto per brevi periodi e per motivi di lavoro».

Un’altra clausola a favore dei proprietari di casa tedeschi è il sistema Staffelmiete, che consente aumenti progressivi del canone d’affitto fino a un massimo del 15 per cento nell’arco di tre anni, costringendo di fatto gli inquilini a cercare costantemente soluzioni più stabili e sostenibili.

Se queste condizioni possono sembrare già di per sé penalizzanti, eccezioni ancora più svantaggiose sono all’ordine del giorno. Ricordo tre anni fa quando mi fu proposto un contratto di affitto della durata di tre anni, ma ogni anno il costo sarebbe aumentato del 12 per cento, in barba alla regolamentazione dello Staffelmiete. Quando il proprietario mi presentò il contratto, aspettandosi che firmassi immediatamente, non esitai a fargli notare che un aumento annuale simile era illegale. Senza scomporsi, rispose, «È assolutamente normale, invece: è pensato per rispecchiare l’inflazione». Non riuscii a frenare una risata, «Un’inflazione del 12 per cento annuo? Per tre anni di fila?»

Nel dubbio, corsi immediatamente dal mio Mieterverein (“associazione degli inquilini”), un’istituzione tutta tedesca che tutela i diritti degli affittuari e fornisce consulenza legale gratuita a fronte di una quota d’iscrizione annuale di circa 100 euro. L’avvocato del Mieterverein scoppiò a ridere leggendo il contratto, «Certo, firmalo pure», mi disse, «è completamente illegale. Appena firmato gli facciamo causa. Non ti preoccupare, i contratti con clausole illegali non sono validi». Ma decisi di lasciar perdere. Non me la sentivo di cominciare una relazione del genere con un proprietario di casa, consapevole che sarebbe stata tossica fin dall’inizio. Continuai la mia ricerca.

Mentre visitavo un numero spropositato di appartamenti che non riuscivo ad accaparrarmi (tra cui un tarkovskyano quaranta metri quadrati senza cucina né sanitari, di cui avrei dovuto farmi carico personalmente), trovai come soluzione temporanea un meraviglioso appartamento di settanta metri quadrati in sublocazione per otto mesi, nella bella Prenzlauer Berg. Dopodiché, mi spostai per tre mesi in un cinquanta metri quadrati in un angolo particolarmente caotico di Neukölln. E infine, per due mesi soltanto in un minuscolo trenta metri quadrati a Kreuzberg. Per chi vive o ha vissuto in qualsiasi grande città europea, questa storia vagamente picaresca non è certo una novità.

In questo scenario sempre più distopico, infatti, i fortunati che vantano un vecchio contratto a tempo indeterminato tendono a tenerselo stretto, anche nel caso volessero lasciare la città per più o meno lunghi periodi, e optano per il subaffitto, spesso in tutta segretezza, senza coinvolgere il proprietario di casa o l’agenzia che gestisce l’immobile. Questo ha dato origine in tutta Europa a un mercato che prospera grazie a una massa involontaria di persone intrappolate in un circolo vizioso di alloggi a breve termine, Airbnb prolungati e altri accordi temporanei.

Senza considerare che queste soluzioni di subaffitto comportano costi ben più elevati degli affitti regolari – perché vuoi non farci la cresta? Allora, per spendere meno, si abbassano le pretese fin sottoterra, e si cercano monolocali minuscoli, i più economici. Oppure, ci si ingegna dividendo le spese di appartamenti leggermente più grandi con un numero variabile di coinquilini, spesso completi sconosciuti trovati online, inventandosi modi per incastrarli tra salotti e sgabuzzini trasformati in stanze da letto. Il risultato, in un caso o nell’altro, è che in questi spazi sempre più lontani dall’idea di casa, si fa di tutto per passarci meno tempo possibile. Forse non è un caso, allora, che i bar sotto casa mia siano sempre pieni, giorno e notte, sette giorni su sette. Quando l’appartamento va stretto, per mancanza di spazio o per sovraffollamento, non può che diventare un semplice dormitorio.

– Leggi anche: Le cose che restano (e quelle che no)

Ritrovandosi in balia di condizioni sempre più restrittive, che impongono di cambiare casa ogni pochi anni o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti ammobiliati diventa inevitabile. Si impara presto, nell’innegabile scomodità del dover traslocare di continuo, che gli appartamenti ammobiliati, con il loro particolare universo fatto di arredi più o meno usurati, soprammobili e souvenir che raccontano storie non nostre, materassi e cuscini ingialliti dal tempo e dai sudori notturni di chissà chi, offrono una straordinaria libertà: si possono chiamare “casa” non appena si appoggiano le valigie a terra e li si può dimenticare altrettanto facilmente, abbandonandoli in qualsiasi momento così come li si è trovati.

Mi sono illuso per anni che questa libertà mi rappresentasse e un po’ mi piacesse: come per la sindrome di Stoccolma, chiamiamolo adattamento. L’idea di poter lasciare qualsiasi posto da un momento all’altro, impacchettare tutto in poche ore e partire. Dove sarei andato? Una soluzione l’avrei trovata: si trova sempre. Ero libero, libero di andare dove volevo, senza restrizioni. Solo recentemente ho capito che non si trattava affatto di libertà, ma del suo esatto opposto.

Come sostiene James Greig in un articolo per Dazed, «la crisi abitativa comporta una disastrosa perdita di libertà […] Abbiamo meno libertà di scegliere dove vivere, meno libertà di sentirci sicuri e di vivere vite dignitose. Oggi, tutti tranne i giovani più benestanti sono soggetti alla precarietà abitativa in qualche forma».

Greig si riferisce in particolare a quanto accade nel Regno Unito, dove è ancora in vigore – almeno per ora – la discussa Section 21, una norma che consente dai tempi dell’Housing Act 1988 ai proprietari di casa britannici di sfrattare gli inquilini con contratti a breve termine senza dover fornire alcuna motivazione (la cosiddetta no-fault eviction).

La Section 21 è uno strumento che rende il mercato degli affitti nel Regno Unito infinitamente più instabile per gli inquilini, che finiscono così per sentirsi sempre di passaggio, ospiti temporanei, o meglio utenti, consumatori di uno spazio trasformato in servizio, senza neppure la garanzia che non gli venga strappato via da sotto i piedi prima del termine concordato.

È ormai ampiamente riconosciuto che la precarietà abitativa incida profondamente sulla salute mentale, generando forme di ansia ambientale cronica. Rende più difficile sentirsi a casa, identificarsi con un luogo, farlo diventare parte della propria storia. Si avverte come un senso di nostalgia anticipata, un senso di perdita prima ancora che qualcosa vada effettivamente perduto. Provare qualsiasi tipo di attaccamento sembra impossibile, o comunque inutile: non solo verso il proprio appartamento, ma anche verso il vicinato e il quartiere. Perché preoccuparsi di legare con la comunità locale quando si sa di essere solo di passaggio per qualche mese, o al massimo per un paio d’anni?

Per chi si trova incastrato nel precariato abitativo, alla lunga l’idea di appartamento rischia di perdere le qualità intime e identitarie, calde e generative, che si è soliti attribuirgli e cercarvi: quel senso originale di casa e di appartenenza che, trasloco dopo trasloco, si finisce col non aspettarsi più. Dev’essere, credo, un po’ come succede con le delusioni d’amore: si impara a ridimensionarsi, ci si rimpicciolisce. Rubando le parole di Garth Greenwell nel suo romanzo Purezza: «attraverso un’erosione forse necessaria alla sopravvivenza, e di cui forse devi ancora pentirti».

Questa erosione sta definendo un nuovo tipo di rapporto che instauriamo con gli appartamenti: una relazione che è simile in tutto e per tutto a quelle situationship distaccate, più o meno etiche, più o meno consapevoli che vanno tanto di moda. Una relazione che è caratterizzata da un’uguale quantità di attrazione e fastidio, e che richiede un’immensa, sempre rinnovata forza di accettazione e perseveranza. La perseveranza nel dare il benvenuto a un gran numero di appartamenti che si è consapevoli fin dall’inizio saranno soltanto temporanei; e l’accettazione, infine, dell’addio rivolto a quello stesso numero di appartamenti, vicinati, quartieri, comunità, che si finisce sempre per lasciare alle spalle, proprio come una stanza d’albergo alla fine di una vacanza.

– Leggi anche: Gli abitanti della nostra casa

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