Cosa c’entra l’ex ILVA con le dimissioni del sindaco di Taranto

Sono arrivate dopo una dura contestazione dei comitati ambientalisti, che chiedono una transizione più veloce

Il quartiere Tamburi di Taranto con alle spalle l'ex ILVA
Il quartiere Tamburi di Taranto con alle spalle l'ex ILVA (Ivan Romano/Getty Images)
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La contestazione di comitati civici e ambientalisti che ha portato il sindaco di Taranto Piero Bitetti a dimettersi è arrivata al termine di un incontro organizzato dallo stesso sindaco per discutere dell’accordo di programma dell’ex ILVA, il più grande impianto siderurgico d’Europa tra quelli ancora alimentati a carbone. L’accordo di programma, che deve essere firmato dal governo, dalla regione, dal comune e dai sindacati, è un documento essenziale per stabilire i tempi della decarbonizzazione, cioè il passaggio per l’impianto a un sistema di produzione meno inquinante rispetto agli attuali altoforni alimentati a carbone. Da mesi i comitati contestano gli scenari proposti dalle istituzioni, giudicate poco attente alla salute degli abitanti.

L’incontro era stato previsto in vista del consiglio comunale in programma mercoledì e dell’incontro col governo fissato per giovedì, che a meno di un ripensamento improvviso del sindaco dovrebbero essere rimandati. Il consiglio comunale avrebbe dovuto discutere e approvare la bozza dell’accordo di programma da firmare poi giovedì al ministero.

L’accordo di programma, insieme all’autorizzazione integrata ambientale (AIA) è un documento importante per la vendita dell’acciaieria. L’ex ILVA è da più di un anno in amministrazione controllata, dopo la fallimentare gestione del gruppo franco-indiano ArcelorMittal, a sua volta preceduta da altri commissari pubblici e prima ancora dal gruppo Riva, che la acquisì negli anni Novanta quando era uno stabilimento pubblico, l’Italsider. Ora il governo vorrebbe venderla e trovare un modo per risolvere una volta per tutte gli annosi problemi ambientali e occupazionali legati all’impianto. Per farlo, però, deve dare prospettive ai possibili acquirenti.

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A Taranto oggi è in funzione solo un altoforno su quattro, perché la manutenzione sugli altri negli ultimi anni non è stata adeguata. Nel 2024 l’impianto ha prodotto meno di 2 milioni di tonnellate di acciaio, una quota che non compensa i costi. Per arrivare a un pareggio si dovrebbero produrre almeno 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno.

L’accordo di programma dovrebbe tenere conto di tutto questo, cioè della necessità di produrre di più, quindi di mantenere l’occupazione, e allo stesso tempo di dismettere l’alimentazione a carbone per inquinare di meno.

Gli scenari per la decarbonizzazione sono stati definiti da un comitato scientifico del ministero delle Imprese. Sono di fatto due. Il primo, il più ambizioso, prevede la realizzazione di tre forni elettrici, quattro impianti chiamati Dri (Direct Reduced Iron, un modo alternativo di produrre ferro che consente di utilizzare gas al posto del carbone), un sistema per la cattura e lo stoccaggio della CO2 associato a ogni impianto Dri. Il comitato scrive che questa ipotesi comporterebbe un fabbisogno energetico significativamente più elevato e richiederebbe una pianificazione infrastrutturale anticipata sia in termini di capacità di trasporto di gas che di approvvigionamento.

Anche il secondo scenario prevede la sostituzione degli attuali altiforni con tre forni elettrici. La differenza è che non sono contemplati impianti Dri e quindi nemmeno gli impianti di cattura e stoccaggio della CO2. In questo modo però l’acciaieria, che oggi dà lavoro a circa ottomila persone, non potrebbe garantire un posto a tutti e sarebbe dipendente da forniture esterne di materiale.

In entrambi i casi l’ex ILVA avrebbe bisogno di una grande quantità di gas per sostituire l’alimentazione a carbone. Si stima che nel primo scenario sarebbero necessari 5,1 miliardi di metri cubi di gas all’anno, mentre nel secondo circa 1,4 miliardi di metri cubi.

Sono due i modi per far arrivare più gas a Taranto. Il primo è un potenziamento del gasdotto TAP che tuttavia ha tempi di realizzazione non compatibili con le esigenze di transizione del primo scenario. Per assicurare una fornitura più veloce è stato proposto di installare una nave rigassificatrice vicino alla diga foranea del porto di Taranto, un impianto simile a quello in funzione nel porto di Piombino, in Toscana. Sia il comune che la regione però sono contrari al rigassificatore. In un’assemblea organizzata nello stabilimento a metà luglio, il sindaco Bitetti ha detto che il rigassificatore «è motivo di preoccupazione: anzitutto per questioni di sicurezza, ma anche perché compromette la funzione del porto dal punto di vista turistico e commerciale».

Il comune ha proposto uno scenario alternativo rispetto ai due prospettati dal comitato scientifico, una soluzione intermedia con tre forni elettrici, un impianto Dri e un relativo impianto per la cattura e lo stoccaggio di CO2. In questo modo secondo il comune sarebbe sufficiente l’attuale fornitura di gas, per poi eventualmente progettare di installare altri impianti Dri adeguando gradualmente il gasdotto TAP.

I comitati civici e ambientalisti contestano tutte queste ipotesi, considerandole poco lungimiranti e insufficienti per tutelare la salute. Da anni chiedono la chiusura degli altiforni ritenuti la principale fonte di diossina e altri inquinanti pericolosi, oltre alla bonifica dei terreni contaminati. Chiedono anche una decarbonizzazione più veloce e non basata sul gas, ma al limite sull’idrogeno “verde” ottenuto usando solo energia prodotta da fonti rinnovabili, come l’energia solare e quella eolica, o quella da riciclo. Il vantaggio di usare l’idrogeno sta nel fatto che la sua combustione non causa l’emissione di anidride carbonica (CO2), il principale tra i gas responsabili del cambiamento climatico, ma solo di vapore acqueo. Per questo motivo sono anche contrari all’installazione di una nave rigassificatrice.

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