Perché Trump vuole licenziare uno che non può licenziare
E perché i suoi pessimi rapporti con il capo della Federal Reserve rischiano di avere conseguenze sul mondo intero

Qualche giorno fa Donald Trump ha riunito nello Studio Ovale una decina di parlamentari del Partito Repubblicano, ha scritto il New York Times, e ha mostrato loro una lettera chiedendo se avrebbe dovuto mandarla. Era una bozza di lettera di licenziamento per Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve (FED), la banca centrale degli Stati Uniti. Trump ha smentito l’esistenza della lettera ma ha confermato di aver chiesto se dovesse licenziare Powell; e d’altra parte sono mesi che se ne lamenta e minaccia di cacciarlo. Facendo anche crollare le borse, in qualche occasione.
Non è una cosa nuova, che Trump minacci di licenziare qualcuno. Ma questa storia non assomiglia a nessun’altra: riguarda infatti il funzionario con la più alta autorità in campo economico al mondo, cioè il presidente della FED, sotto cui ricade la responsabilità del sistema finanziario del paese e, a catena, del mondo intero. Un suo licenziamento avrebbe conseguenze potenzialmente gravissime, ma non perché Powell abbia talenti insostituibili: perché sancirebbe di fatto la fine dell’indipendenza della FED dal governo statunitense.
L’ostilità di Trump nasce da una questione semplice. Trump è riuscito fin qui a portare avanti gran parte delle politiche che aveva in mente: le restrizioni sull’immigrazione, i dazi seppur con tutte le retromarce del caso, il taglio delle tasse, i licenziamenti tra i dipendenti pubblici, eccetera, e può lavorare per tentare di raggiungere gli altri obiettivi. C’è solo una cosa che non può fare, pur volendola moltissimo, perché non rientra tra i suoi poteri: tagliare i tassi di interesse. Quello è un potere esclusivo e insindacabile della FED.
La Federal Reserve, da statuto, ha un obiettivo duplice: garantire prezzi stabili e la massima occupazione possibile. Lo strumento che utilizza per favorire condizioni economiche che permettano di raggiungere questi obiettivi è l’intervento sui tassi di interesse: le banche centrali fissano e aggiornano periodicamente il tasso di riferimento, sulla base del quale si calcolano i tassi offerti dalle banche ai loro clienti.
Negli ultimi anni i tassi sono cresciuti molto, allo scopo di fermare l’inflazione che ha colpito tutte le economie occidentali da dopo la pandemia (lo ha fatto anche la Banca Centrale Europea). Aumentando i tassi di interesse, infatti, le banche centrali sperano di rallentare l’attività economica quanto basta per far rallentare l’aumento dei prezzi. Quando l’inflazione è stabile, i tassi possono restare stabili oppure essere abbassati per stimolare l’economia e aiutarla ad aumentare l’occupazione.
Secondo Trump oggi i tassi andrebbero abbassati. Powell sta tergiversando.

(AP Photo/Richard Drew)
Non è del tutto anomalo che ci siano divergenze tra i governi e le banche centrali. In parte accade proprio per l’indipendenza delle due istituzioni. In parte perché le banche centrali prendono decisioni senza preoccuparsi delle conseguenze di quelle decisioni sul piano dei consensi, che invece comprensibilmente interessano molto alla politica.
Sebbene alzare i tassi sia considerata la tecnica più efficace per tenere sotto controllo i prezzi, la politica non ama i suoi effetti, tra cui il consistente aumento del costo dei mutui e degli interessi sul debito pubblico. Allo stesso tempo, le banche centrali dovrebbero fermarsi prima di far finire l’economia in recessione. Trump chiama Powell “Mr. Too Late”, “Signor Troppo Tardi”, perché a suo dire starebbe aspettando troppo ad abbassare i tassi, mettendo a repentaglio la crescita dell’economia.
L’argomento di Trump non è del tutto infondato: la FED si sta muovendo in modo diverso dalle altre grandi banche centrali del mondo. Oggi i tassi statunitensi sono intorno al 4,5 per cento, quelli della Banca Centrale Europea tra il 2 e il 2,4 per cento. Da luglio dell’anno scorso la Banca Centrale Europea ha abbassato i tassi di interesse per otto volte consecutive, quasi dimezzandoli; la FED solo tre volte, di cui l’ultima lo scorso dicembre. Da allora non li ha più toccati.
Allo stesso tempo, però, l’economia statunitense versa in condizioni molto diverse dall’economia europea. Negli Stati Uniti l’inflazione è al 2,7 per cento, in Unione Europea al 2 per cento; il PIL degli Stati Uniti cresce con percentuali tra il 2 e il 3 per cento annuo, la crescita dell’Unione Europea balla intorno all’1 per cento. Inoltre, a prescindere da tutto questo, ci sono tante ottime ragioni per cui è opportuno che queste decisioni spettino alle banche centrali in completa indipendenza.

Una conferenza stampa di Powell, a maggio (AP Photo/Jacquelyn Martin)
I condizionamenti della politica sulle banche centrali, che fino agli anni Settanta erano la regola, hanno fatto molti danni: la tendenza della politica a guardare innanzitutto ai consensi produceva tassi slegati dalla realtà e portava a frequenti fasi di inflazione altissima e sovraindebitamento. La ricerca economica ha ampiamente dimostrato che quando le banche centrali sono immuni dai condizionamenti politici riescono a garantire un’inflazione più bassa senza mettere a repentaglio la crescita e i posti di lavoro.
Al contrario, senza l’indipendenza della FED a garantire sulla solidità dell’economia statunitense e delle sue scelte su tassi, inflazione e debito, gli investitori assocerebbero agli Stati Uniti un rischio molto maggiore: tra le conseguenze possibili ci sarebbero un calo del valore del dollaro e un aumento dei tassi di interesse da offrire al mercato per vendere i titoli di stato. Le ricadute sarebbero percepite a livello globale, come è evidente tutte le volte in cui un rialzo o un ribasso delle borse statunitensi trascina con sé quelle di mezzo mondo.
L’indipendenza delle banche centrali serve poi per una ragione molto pratica: spesso i banchieri centrali fanno politica monetaria semplicemente coi loro discorsi, e la loro efficacia è tanto più alta quanto più sono autorevoli. Basti pensare a Mario Draghi che nel 2012, quando era capo della Banca Centrale Europea, fermò la speculazione sull’euro solo col suo «whatever it takes». Una credibilità del genere sarebbe impossibile da mantenere, se tutti pensassero che in realtà chi comanda è la politica.

Mario Draghi con Jerome Powell, nel 2018 (AP Photo/Jose Luis Magana)
È per queste ragioni che Powell in questi mesi ha potuto resistere alle pressioni di Trump sui tassi di interesse, nonostante questo pubblicamente lo chiamasse «stupido», «testa di legno», «poco furbo» e «testardo come un mulo», solo per fare qualche esempio. «Lo chiamo con tutti i soprannomi possibili e immaginabili nel tentativo di convincerlo a fare qualcosa», ha detto una volta il presidente degli Stati Uniti.
Una delle ragioni per cui Powell prende tempo, poi, è proprio legata alle decisioni di Trump sui dazi. I dazi, infatti, sono una tassa sulla merce importata negli Stati Uniti, che i venditori solitamente scaricano in certa misura sui consumatori, i quali si ritrovano a comprare prodotti rincarati. Powell su questo è sempre stato molto netto, spiegando che sono proprio i dazi a ostacolare la riduzione dei tassi, visto che possono far crescere i prezzi. E questo ha fatto arrabbiare Trump ancora di più.
«Sono rimasto sorpreso quando è stato nominato», ha detto Trump di Powell qualche giorno fa. A questo punto della storia può essere interessante ricordare che Powell lo ha nominato proprio lui nel 2017, durante il suo primo mandato. Il suo incarico scade la prossima primavera.

Il momento della nomina, a novembre 2017 (AP Photo/Alex Brandon)
Molti esperti e giuristi in questi mesi hanno tentato di capire se effettivamente Trump possa licenziare Powell, visto che non ci sono precedenti e lo statuto della FED prevede la rimozione del presidente solo per giusta causa. Forse per questo motivo, da qualche settimana l’amministrazione Trump sta cercando una soluzione diversa: accusarlo di frode.
Da qualche giorno infatti si parla dei problemi incontrati dalla ristrutturazione della sede centrale della FED a Washington, che coinvolge due edifici vecchi di un secolo e oggetto di un progetto da circa 2 miliardi e mezzo di dollari. La ristrutturazione ha sforato il budget iniziale, 700 milioni, secondo la FED per le difficoltà degli appaltatori nel lavorare con edifici mai ristrutturati e dalle fondamenta molto vecchie. Trump e i suoi collaboratori sostengono che l’aumento dei costi dipenda da alcune richieste di pregio, come una nuova sala da pranzo «VIP», un ascensore speciale per i funzionari più importanti e un ampio utilizzo del marmo. La FED ha respinto queste accuse ma Powell ha chiesto di riesaminare il progetto.
Sebbene le accuse siano diventate più dure e concrete, però, a giudicare dall’andamento dei mercati finanziari, sembra che gli investitori abbiano smesso di credere alle minacce: a differenza degli scorsi episodi, quando il valore di dollaro e titoli di stato crollava improvvisamente ogni volta che Trump criticava Powell o alludeva alla possibilità di licenziarlo, le borse a questo giro non hanno reagito.
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