Il futuro dell’ex ILVA passa per questo documento
È l'AIA, che stabilisce cosa deve fare chi si accollerà l’impianto: le condizioni da rispettare potrebbero essere un ostacolo alla vendita
di Francesco Gaeta

C’è un documento che sarà decisivo per il futuro dell’ex ILVA di Taranto, il più grande impianto siderurgico d’Europa tra quelli ancora alimentati a carbone. Si chiama “Autorizzazione integrata ambientale” (AIA), viene emessa ad hoc per gli impianti che hanno determinate caratteristiche, e contiene indicazioni che il futuro gestore dell’impianto dovrà seguire per ridurne l’impatto ambientale e tutelare la salute di chi ci abita vicino. Visto che l’obiettivo del governo è vendere l’ex ILVA, sapere cosa preveda l’AIA significa comprendere quali condizioni l’eventuale acquirente dovrà rispettare: e anche, di conseguenza, quanto sarà difficile vendere.
L’ultima AIA dell’ex ILVA di Taranto venne fatta nel 2011 ed è scaduta da due anni, perciò va rinnovata. Per farlo serviva un lavoro preliminare di una commissione appositamente nominata del ministero dell’Ambiente, concluso di recente e depositato in un documento che si chiama “Parere istruttorio conclusivo” (PIC). È un testo riservato che il Post ha potuto visionare e che potrebbe essere approvato questa settimana. È lungo oltre 400 pagine, contiene 472 prescrizioni e integra e sostituisce 33 provvedimenti governativi che dal 2011 sono serviti per specifici interventi di salvaguardia dell’ambiente: cose come la copertura dei depositi di minerale ferroso per evitare la diffusione di polveri, la copertura dei nastri trasportatori, la gestione delle acque di scarico.
Per capire meglio l’importanza di questo documento, bisogna aprire una parentesi di contesto. Il governo controlla da più di un anno l’ex ILVA in amministrazione controllata, dopo la fallimentare gestione del gruppo franco-indiano ArcelorMittal, a sua volta preceduta da altri commissari pubblici e prima ancora dal gruppo Riva, che la acquisì negli anni Novanta quando era uno stabilimento pubblico, l’Italsider. Ora vorrebbe sbarazzarsene e trovare un modo per risolvere una volta per tutte gli annosi problemi ambientali e occupazionali legati all’impianto.
In questi giorni il documento più raccontato dai media non è l’AIA ma la bozza dell’accordo di programma, un documento che dovrebbe fissare modi e tempi della decarbonizzazione, cioè il passaggio per l’impianto a un sistema di produzione meno inquinante rispetto agli altoforni alimentati a carbone. Devono approvarlo tutte le parti che hanno un qualche titolo a decidere sul futuro dell’ex ILVA: il ministero delle Imprese, che ne è il proprietario e lo gestisce attraverso tre commissari straordinari; la Regione Puglia; il comune di Taranto; i sindacati. Per ora non ci sono accordi su tempi, modi e costi della transizione: l’ultima riunione si è tenuta il 15 luglio e ha rinviato tutto al 31 luglio.

Il ministro delle Imprese Adolfo Urso all’ex ILVA per incontrare i lavoratori al cambio turno, insieme al commissario straordinario Giancarlo Quaranta, il 27 febbraio 2024 (ANSA/ UFFICIO STAMPA DEL MINISTRO)
I due percorsi – accordo di programma e AIA – si intrecciano ma hanno un diverso grado di efficacia. Il primo è un atto di indirizzo politico, riguarda il futuro industriale dello stabilimento e non prevede sanzioni in caso di inosservanza. L’AIA, al contrario, vincola giuridicamente il gestore, riguarda la sicurezza collettiva e la sua inosservanza può portare alla chiusura dello stabilimento: le prescrizioni dell’AIA devono essere rispettate dall’eventuale acquirente.
Nel testo del “Parere istruttorio conclusivo” (PIC) ci sono almeno tre punti rilevanti.
Il primo è il limite massimo di produzione annua, che per essere compatibile con la salute pubblica è fissato a 6 milioni di tonnellate di acciaio. Secondo calcoli indipendenti, è la soglia minima per portare a pareggio costi e ricavi, se si vogliono mantenere il numero di lavoratori odierno (circa 8.000 addetti diretti) e le attuali tecnologie di produzione, cioè altoforni alimentati a coke, un residuo del carbone fossile. Ma è una cifra inferiore agli 8 milioni di tonnellate originariamente richiesti dal gestore, cioè i commissari governativi, perché ritenuta economicamente più sostenibile. In ogni caso non sarà facile arrivare neanche a 6 milioni: a Taranto oggi solo un altoforno su quattro è in funzione, perché la manutenzione sugli altri negli ultimi anni non è stata adeguata. Nel 2024 l’impianto ha prodotto meno di 2 milioni di tonnellate di acciaio, una quota che non compensa i costi.
Questo sta aggravando una situazione finanziaria già compromessa: a fine 2022 il debito dell’ex ILVA era di 4,7 miliardi di euro, ed è l’ultimo dato pubblico disponibile.
Per raggiungere la soglia dei sei milioni di tonnellate di acciaio all’anno, il PIC prescrive diversi interventi di ammodernamento dei tre altoforni inattivi e in generale degli impianti. Sono necessari per riportare la produzione a regime assicurando il minor impatto ambientale possibile. In caso di vendita toccherà realizzarli a chi subentrerà nella gestione.
L’altro punto rilevante del PIC riguarda la decarbonizzazione, che è appunto il tema al centro dell’accordo di programma. La cosa notevole è che su questo punto il documento preparatorio dell’AIA non dice nulla di concreto. Si limita a prescrivere che entro un anno dall’approvazione il gestore presenti un piano per sostituire il carbone e i combustibili fossili. «Tale piano deve includere un cronoprogramma di dettaglio delle attività e degli obiettivi previsti», dice. È in sostanza un rinvio, che anche in questo caso lascia in carico all’eventuale acquirente tempi e costi dell’operazione.
Sono costi elevati, di tipo economico e sociale. Gli altoforni a carbone dovrebbero essere sostituiti dai forni elettrici ad arco, che sono in uso in circa l’80 per cento degli impianti siderurgici italiani e che nel tipo di impianto previsto per il futuro dell’ex ILVA lavorerebbero una materia prima che si chiama “preridotto”. Il preridotto è ottenuto trattando il minerale di ferro con gas a base di metano o idrogeno, dunque senza fusione e uso di carbone. Il materiale viene poi fuso nel forno, che usa energia elettrica ad alta tensione per raggiungere le temperature necessarie alla fusione. Questo processo consente di ridurre drasticamente le emissioni di CO2 e di altre sostanze inquinanti.
Il problema è che i forni elettrici e gli impianti di preridotto costano tanto e impiegano molti meno addetti rispetto agli altoforni. Secondo uno studio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, per ognuno di essi a Taranto occorrerà spendere da 800 milioni di euro a 1 miliardo. Stando a quello che si è letto dell’accordo di programma, ne sono previsti tre. Secondo gli standard internazionali, una lavorazione a carbone prevede 1.000 addetti per ogni milione di tonnellate di acciaio prodotto all’anno, mentre un sistema produttivo a forni elettrici e impianti di preridotto non occuperebbe più di 400 lavoratori per ogni milione di tonnellate: il 60 per cento in meno.

Un operaio al lavoro a un forno elettrico ad arco, nello stabilimento di Georgsmarienhütte, in Germania (ANSA-DPA)
L’inevitabile riduzione del personale derivante dalla decarbonizzazione non trova molto spazio nelle discussioni di questi giorni intorno all’accordo di programma. Succede per le stesse ragioni di consenso che hanno portato tutti i governi e le gestioni passate a non risolvere la questione: l’ex ILVA dà lavoro a circa 8mila persone, di cui attualmente circa la metà in cassa integrazione, e mandarle via per chiudere o riqualificare lo stabilimento è sempre stato ritenuto troppo costoso. Vendere l’impianto serve anche a scaricare questa difficile transizione sull’acquirente.
Per misurare la reale volontà politica del governo di procedere con la decarbonizzazione bisogna guardare a cosa ci sarà nell’accordo di programma sulla ricollocazione degli operai, che hanno un’età media di 50 anni e sono dunque lontani dalla misura classica che si usa in questi casi, cioè il prepensionamento. Se l’accordo di programma non conterrà misure chiare su questo punto, la decarbonizzazione potrebbe restare un annuncio più che una prospettiva reale.
La terza questione rilevante del PIC riguarda la salute. Su spinta di alcuni cittadini di Taranto, la Corte di giustizia dell’Unione Europea stabilì che nelle prescrizioni dell’AIA fosse inclusa anche una valutazione ufficiale dell’impatto della fabbrica sulla salute di chi vive intorno (attraverso una procedura tecnica chiamata VIS, Valutazione di impatto sanitario). La cosa singolare è che la VIS è come sempre affidata allo stesso gestore: chi produce le emissioni è cioè lo stesso soggetto che deve accertare i loro impatti sulla salute dei cittadini.
Esiste tuttavia un ente di controllo, che è l’Istituto superiore di sanità (ISS).
Nei mesi scorsi, per tre volte l’ISS ha chiesto al gestore, cioè ai commissari straordinari del governo, di integrare la valutazione di impatto sanitario inizialmente presentata lo scorso anno. Le richieste dell’ISS erano contenute in tre relazioni che sono state viste dal Post (e che sono riservate pur essendo di rilevanza pubblica).
Nel luglio del 2024 l’ISS scrisse che la VIS del gestore presentava «diversi limiti e lacune di informazione che appare necessario colmare per poter correttamente valutare l’impatto sulla salute» delle emissioni. Nel febbraio del 2025 aggiunse di aver trovato «incongruenze» rispetto alle linee guida stabilite dall’ISS stesso, e che quindi la VIS era da considerarsi inadeguata «per sottostima». A marzo, parlando della qualità dell’aria nel periodo dal 2017 al 2023, scrisse che «si riscontrano criticità per il benzene, con un aumento delle concentrazioni che richiede attenzione». Nel PIC si stabilisce dunque che entro tre mesi dall’approvazione dell’AIA il gestore trasmetta nuovi dati all’ISS, verificando meglio le emissioni e includendo l’impatto sulle aree confinanti con l’impianto.



