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  • Mercoledì 16 luglio 2025

Le lunghe indagini sul suicidio di un poliziotto in carcere vicino a Bari

Ci sono testimonianze di pesanti maltrattamenti nei suoi confronti, e per questo sono state respinte due richieste di archiviazione

Una foto d'archivio di poliziotti in un carcere del Lazio (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)
Una foto d'archivio di poliziotti in un carcere del Lazio (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)
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Nel 2021 un agente di polizia di 56 anni che lavorava al carcere di Turi, vicino a Bari, si sparò. Si chiamava Umberto Paolillo. Prima di morire aveva scritto in alcune lettere che veniva vessato e maltrattato da anni dai suoi colleghi della polizia penitenziaria in carcere. Le indagini sul suo suicidio non si sono ancora chiuse: il giudice per le indagini preliminari di Bari ha respinto per due volte la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, l’ultima volta ieri, chiedendo ulteriori indagini e approfondimento sul caso.

Paolillo era descritto come mite, schivo, piuttosto timido, non era sposato e viveva coi genitori. Si uccise nella sua automobile con la pistola d’ordinanza. L’avvocato della famiglia, Antonio Portincasa, disse che aveva in tasca un foglio in cui raccontava dei maltrattamenti e del clima violento, discriminatorio e sessista in cui lavorava. Scrisse anche che i colleghi lo bullizzavano con commenti sarcastici sulla sua presunta verginità, che lo chiamavano “gay” con l’intento di offenderlo, e che in generale lo prendevano costantemente in giro per il suo aspetto e le sue abitudini.

Secondo quanto ha raccontato Repubblica, l’ispettore capo lo avrebbe ripetutamente schernito davanti a tutti in quanto «illibato» e alcuni colleghi lo avrebbero invitato a «farsi una cultura» proponendogli giornali pornografici. Secondo un ex detenuto con cui Paolillo si confidava, i colleghi lo chiamavano inoltre “gobbetta” per via del suo aspetto, dovuto a un problema alla spina dorsale di cui soffriva.

La sua avvocata, Laura Lieggi, ha spiegato che per via dei problemi di salute Paolillo si era dovuto mettere varie volte in malattia, e che le sue assenze erano finite al centro di dicerie, tra i colleghi, sul fatto che avesse problemi psichici. Nel frattempo Paolillo aveva iniziato ad avere anche problemi sul lavoro per cui aveva ricevuto alcune sanzioni disciplinari. «Quando abbiamo saputo del suicidio abbiamo pensato che fosse arrivato al limite e che il gesto fosse collegato a quello che subiva in carcere», ha detto l’ex detenuto.

Paolillo si era ripetutamente lamentato dell’ambiente lavorativo, non solo nei fogli – che raccolse in una cartella – ma anche parlando con un ex detenuto, con il suo avvocato, con alcuni familiari e con il proprio medico. Secondo il gip il suicidio di Paolillo merita ulteriori indagini e approfondimenti perché ci sono ragionevoli elementi per ritenere che sia avvenuto anche a causa delle condotte vessatorie dei colleghi poliziotti.

Al momento sul caso di Paolillo non ci sono indagati: dopo il suo suicidio fu avviata un’indagine in cui tra gli altri fu ascoltato l’ex detenuto, che fece il nome di un ispettore capo della polizia penitenziaria e di otto altri agenti ritenuti responsabili delle vessazioni subite da Paolillo. Nessuna di queste persone è ancora mai stata iscritta al registro degli indagati.

Nel 2024 lo stesso giudice per le indagini preliminari respinse per la prima volta la richiesta di archiviazione delle indagini sul caso, ritenendo che Paolillo potesse essere stato indotto al suicidio proprio dalle vessazioni dei colleghi. Martedì lo stesso gip ha respinto la seconda richiesta  di archiviazione con le stesse ragioni, e ha ordinato l’avvio di nuove indagini sul caso entro sei mesi.

Secondo il gip potrebbe essere formulata un’accusa per maltrattamenti, e per individuare i responsabili andranno ascoltati altri testimoni. I suicidi degli agenti di polizia penitenziaria sono molti e frequenti, e sono un altro dei problemi delle carceri in Italia, che sono luoghi sovraffollati, con condizioni problematiche sia per i detenuti che per chi ci lavora. Non sono disponibili dati ufficiali e pubblici riguardo al numero di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria: le notizie dei singoli casi vengono diffuse dai sindacati di categoria, dai giornali locali e nazionali. Esistono anche database indipendenti che tengono conto dei vari casi, che però non sempre sono aggiornati e in alcuni casi sono discordanti tra loro.

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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.