Lasciare che i bambini si annoino d’estate

È un approccio che si sta diffondendo tra i genitori che possono permetterselo, e ha un suo senso educativo a certe condizioni

Tre bambini seduti su un marciapiede e annoiati, in una foto in bianco e nero degli anni Settanta
(H. Armstrong Roberts/ClassicStock/Getty)
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Per moltissimi bambini e bambine la fine della scuola non coincide con l’inizio delle vacanze: è l’inizio di un periodo di altre cose da fare. Tra i genitori che lavorano e che non possono o non vogliono mandare i figli al mare o in montagna, dai nonni o da altri parenti, di solito a quel punto dell’anno è già cominciata da mesi una ricerca spesso frenetica di attività extrascolastiche per tenerli impegnati. Ma c’è anche chi, potendo, considera una valida alternativa lasciare che i figli non facciano proprio niente, per tutta o per una parte dell’estate: niente campi estivi, niente attività più o meno strutturate e supervisionate.

Negli Stati Uniti è una tendenza recente che ha preso il nome di kids rotting (letteralmente “ragazzi che marciscono”), o wild summer (“estate selvaggia”). È il rifiuto dei genitori di organizzare maniacalmente le vacanze dei loro figli preadolescenti, con l’intenzione di lasciarli oziare e annoiarsi, in casa o all’aperto, possibilmente non davanti a uno schermo. È una scelta frequente anche in altri paesi, che soddisfa bisogni eterogenei, incluso quello di risparmiare costi di attività estive che non tutte le famiglie possono permettersi.

Il problema di cosa far fare ai figli in estate è a maggior ragione molto condiviso in Italia, che è il paese con le vacanze scolastiche più lunghe d’Europa: tra le 11 e le 14 settimane. Secondo un recente rapporto dell’istituto EU.R.E.S. e dell’associazione Adoc su circa 200 campi estivi in otto città italiane, una settimana a tempo pieno in un campo estivo costa mediamente 173 euro (ma si può arrivare anche a molto di più con campi privati e in città costose come Milano). In pratica, escludendo un mese di ferie dei genitori (e non è neanche detto che ce l’abbiano), per otto settimane una famiglia italiana deve spendere mediamente 1.384 euro a figlio o figlia.

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Per molti genitori lasciare i figli sfaccendati d’estate non è quindi una scelta, ma una necessità. Allo stesso tempo il kids rotting non è davvero un’opzione per tutte le famiglie, ma solo per quelle in cui c’è almeno un genitore che non lavora o che lavora da casa, o ci sono nonni o babysitter a cui lasciare i bambini in orario lavorativo.

A prescindere dalle disponibilità economiche familiari, il kids rotting si è però affermato ultimamente come una scelta ragionata e convinta. Nel contesto statunitense è stato descritto come il tentativo di sottrarsi a una «moderna cultura parentale ultracompetitiva» da parte di genitori esausti di fare a gara a quale bambino o bambina della classe trascorrerà in modo più stimolante la pausa estiva. Secondo Arianna Giorgia Bonazzi, giornalista e scrittrice di libri per bambini, che si è occupata di kids rotting su Rivista Studio, questo è un discorso che vale in parte anche in Italia e che riflette cambiamenti più ampi nella società.

«Oggi parliamo meno che in passato di cosa faranno i nostri figli da grandi, e c’è molta più insicurezza riguardo all’idea che investire nella formazione dei ragazzi assicuri loro una posizione migliore nella società», dice Bonazzi. C’è più sfiducia e indolenza, in generale, verso «una certa forma capitalista di organizzare il tempo dei ragazzi e di renderli performanti».

A rendere attraente il rifiuto di programmare attività estive per i bambini contribuisce anche la convinzione molto diffusa che la noia sia formativa, e che per i bambini e le bambine sia diventato più difficile farne esperienza proprio perché rispetto al passato hanno poco tempo libero e troppi impegni scolastici ed extrascolastici. È una convinzione almeno in parte alimentata dalla tendenza a considerare migliori di quelle attuali le esperienze infantili e adolescenziali “di una volta”, fatte di giochi all’aperto e anche di lunghi pomeriggi oziosi in casa, senza smartphone né tablet.

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Trascorrere parte dell’estate senza un’occupazione rigidamente programmata dagli adulti può in effetti offrire ad alcuni bambini opportunità preziose di sviluppare capacità organizzative autonome, spiega Francesco Sulla, ricercatore in psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università di Foggia, e autore di studi sulle classi di scuola primaria.

Per esempio, i bambini che hanno la fortuna di alternare il tempo da soli con quello con cugini, fratelli o altri bambini del vicinato, di poco più grandi o più piccoli, possono beneficiare del loro sostegno nei processi dell’apprendimento (un concetto noto in psicologia come scaffolding, “impalcatura”). I bambini che stanno invece soltanto con i nonni, che pure offrono un sostegno spesso fondamentale per il nucleo familiare, «possono qualche volta soffrire un po’ di povertà educativa».

Non è detto però che i genitori che scelgono con convinzione di non iscrivere i figli ai campi estivi o ad altre attività programmate siano poi nella condizione di permettere comunque ai figli di frequentare diversamente altri bambini. Averli a zonzo per casa pone inoltre la questione di come relazionarsi a loro: «la letteratura mette in guardia dall’equivoco di ridurre tutto a una semplice questione di “lasciarli fare”», aggiunge Sulla. Le possibili strategie genitoriali in questi casi sono due, spesso confuse: o un «controllo parentale», che include divieti rigidi e una supervisione intrusiva; o un «monitoraggio parentale», che si fonda sulla fiducia reciproca e sul dialogo.

Molti studi collegano al secondo approccio, non al primo, i risultati migliori per i bambini una volta adulti: minore uso di sostanze, meno comportamenti antisociali e migliore autoregolazione delle emozioni. Solo con questo approccio il kids rotting può avere senso, perché «è proprio in quelle zone di libertà vigilata che bambine e bambini imparano a fare scelte autonome senza sentirsi abbandonati», dice Sulla.

Un discorso simile vale anche per il tempo di utilizzo di smartphone e tablet, che di fatto rischia di aumentare se i bambini vengono lasciati molto tempo in casa a non fare niente. Il neologismo stesso kids rotting ne richiama un altro già diffuso da alcuni anni e associato a un certo utilizzo dei dispositivi: brain rot, usato per descrivere un particolare effetto negativo di internet.

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«Limitare i dispositivi in alcune fasce orarie può avere senso, ma solo in combinazione con alternative realmente accessibili come spazi di quartiere, giochi all’aperto e materiali con cui sperimentare, altrimenti la noia rischia di trasformarsi in mera deprivazione», dice Sulla. Sul piano psicologico, la noia è uno stato emozionale che spinge a cercare stimoli più soddisfacenti: non è detto che sia incompatibile con i dispositivi elettronici.

La questione non è tanto la presenza o l’assenza dello schermo, ma se l’esperienza è passiva e ripetitiva oppure interattiva e coinvolgente. Alcune ricerche, per esempio, mostrano che i media educativi sono più utili per i bambini quando sono interattivi. E questo può rendere in determinate circostanze un iPad una scelta migliore della TV, di gran lunga il media più presente nelle estati degli anni Ottanta e Novanta a cui molti genitori seguaci del kids rotting fanno spesso riferimento considerandole un buon modello.

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Non è chiaro però se i social media – cioè l’utilizzo prevalente dei dispositivi, in molti casi – siano peggio o meglio della TV di una volta. Di certo è molto diffusa l’impressione che siano peggio, ma bandire i dispositivi non è né realistico, né necessariamente benefico. «Invocare un’estate totalmente priva di impegni formali e insieme “device‑free” suona, più che una proposta pedagogica, come un nostalgico ritorno a un passato pre‑Internet», dice Sulla. Vietare l’uso di tablet e smartphone rischia di provocare conflitti familiari legati al fatto che «si tende a vietare senza offrire né alternative né gli strumenti per affrontare la privazione». Molti studi considerano preferibili soluzioni intermedie: «finestre di “digiuno digitale” co-progettate con i bambini, spazi di quartiere sorvegliati ma poco direttivi, e programmi pubblici a costi accessibili che riducano il divario socio-economico».