Come il governo vuole far rientrare il ponte sullo Stretto nelle spese militari

C'entrano le regole ambigue della NATO, e il cosiddetto corridoio Scandinavo-Mediterraneo

Un rendering del ponte sullo Stretto di Messina
Un rendering del ponte sullo Stretto di Messina (Webuild)
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Venerdì scorso per la prima volta il governo ha ammesso pubblicamente di voler inserire i costi del ponte sullo Stretto di Messina – almeno 13,5 miliardi di euro – nell’accordo firmato alla fine di giugno dai paesi della NATO per alzare al 5 per cento del Prodotto interno lordo (PIL) la propria spesa militare entro il 2035. Il ponte è un esempio concreto di un espediente del governo sostenuto soprattutto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: consiste nell’inserire tutte le spese possibili nel bilancio della difesa, anche quelle che con la difesa c’entrano in modo marginale.

L’aumento delle spese fino al 5 per cento del PIL era una richiesta del presidente statunitense Donald Trump, secondo cui i paesi membri della NATO non contribuiscono a sufficienza ai costi dell’alleanza. Alla fine l’accordo era stato accettato da quasi tutti, trovando un compromesso sulla divisione delle spese e su tempi più lunghi (inizialmente il raggiungimento dell’obiettivo era previsto entro il 2032). Nel corso della riunione conclusiva Trump aveva confermato l’impegno degli Stati Uniti alla difesa comune tra i paesi della NATO, come chiedevano gli altri leader.

L’obiettivo di spesa fino al 5 per cento del PIL è graduale nel tempo e soprattutto si compone di due voci: un 3,5 per cento di spese per la difesa, cioè per gli armamenti, i soldati e in generale per il personale dell’esercito; e un 1,5 per cento di spese per la sicurezza, cioè le infrastrutture come porti e ferrovie che in caso di guerra potrebbero essere usate dalle forze armate, gli investimenti in sicurezza informatica, l’installazione di cavi sottomarini per il passaggio di energia, gas o dati, e persino la gestione dell’immigrazione.

Non si può dire con certezza quanto spenderà l’Italia tra 10 anni, e per un motivo molto semplice: nessuno sa come cambierà il PIL da qui al 2035. Se fosse sempre lo stesso, arriveremmo a spendere 58 miliardi in più all’anno tra 10 anni, ma è appunto un calcolo teorico che ha poco senso considerata la quantità di variabili. Questa incertezza ha alimentato il dibattito tra opposizione e maggioranza, basato però su stime fuorvianti, fatte per convenienza politica.

Gli obiettivi e le spese però cambieranno anche per via di un espediente già usato dal governo per rientrare nel 2 per cento del PIL entro la fine di quest’anno, rispettando un accordo preso nel 2014.

È un artificio contabile trovato dal ministero dell’Economia, che è riuscito a sfruttare alcune ambiguità delle regole finanziarie della NATO per fare in modo che rientrino nei conti anche spese che all’apparenza c’entrano poco con la difesa. Alcuni esempi sono le pensioni dei militari che finora rientravano prevalentemente nel bilancio dell’INPS, le spese per lo Spazio, quelle per la Guardia Costiera e alcune voci di spesa della Protezione civile.

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Tra queste voci di spesa rientrerebbe anche il ponte sullo Stretto, almeno così vorrebbe il governo. L’avevano anticipato alcuni giornali nelle scorse settimane, e venerdì il sottosegretario per l’Interno Emanuele Prisco l’ha confermato rispondendo a un’interpellanza presentata dal leader dei Verdi Angelo Bonelli.

Leggendo una nota del ministero della Difesa, Prisco ha detto che il ponte potrebbe rientrare nel piano dell’Unione Europea Military Mobility pensato per migliorare le infrastrutture e favorire una mobilità sicura e rapida di truppe e mezzi militari in caso di necessità, in accordo con la NATO.

Prisco ha citato in particolare il corridoio Scandinavo-Mediterraneo. È una rete di infrastrutture, principalmente ferrovie, ed è lungo quasi 12mila chilometri. Attraversa 7 paesi (oltre all’Italia: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Germania e Austria) e a questo punto includerebbe anche il collegamento ferroviario e stradale tra Reggio Calabria e Palermo.

Il corridoio fa parte di una rete europea ancora più ampia, TEN-T, che serve anche per agevolare la logistica militare. «In questa cornice, con questa logica, anche il ponte sullo Stretto potrebbe essere considerato un’infrastruttura coerente con le linee guida NATO ed europee in tema di sicurezza integrata e mobilità strategica», ha detto Prisco, che ha usato quasi solo verbi al condizionale e ha riferito in modo generico di confronti tra il governo italiano e l’Europa, anche se Bonelli aveva chiesto in modo diretto se il ponte fosse stato inserito nel piano Military Mobility dell’Unione Europea.

Bonelli voleva una risposta chiara perché ad aprile il governo aveva trasmesso alla Commissione Europea una relazione per sostenere il “rilevante interesse pubblico” del progetto, da approvare in deroga ad alcune norme ambientali. Nella relazione, il governo aveva citato appunto anche il piano Military Mobility. Secondo Bonelli, questa operazione consentirebbe al governo di non rispettare vincoli ambientali europei, altrimenti insuperabili.

Nelle prossime settimane il governo dovrà capire se questa impostazione contabile sarà accettata dalla NATO e dall’Unione Europea. Nel frattempo il progetto del ponte sullo Stretto deve ancora essere approvato dal CIPESS, il comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile. È un passaggio molto atteso dal governo perché è l’ultimo in vista dell’apertura dei cantieri. Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini aveva annunciato che il CIPESS avrebbe approvato il progetto entro dicembre del 2024, poi entro aprile di quest’anno, poi entro maggio, poi entro giugno. Ora l’ultima scadenza è stata fissata a luglio.

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