Il disegno di legge sulla caccia regolarizzerebbe un sacco di cose che si fanno già
Ma farebbe anche un favore all'economia che gira intorno ai cacciatori, e ridurrebbe il controllo dei tecnici

Il 20 giugno i partiti di maggioranza hanno depositato in Senato un disegno di legge sulla caccia, che era stato molto contestato dalle organizzazioni ambientaliste e animaliste ancora prima di essere presentato. Prima di diventare legge, il ddl dovrà essere discusso da due commissioni del Senato: l’ottava, che si occupa di ambiente e temi affini, e la nona, che tra le altre cose si occupa di industria, turismo e agricoltura, e poi dovrà essere approvato dalle aule parlamentari. Secondo 46 associazioni ed enti, tra cui il WWF, Legambiente, LIPU ed ENPA, il ddl favorisce troppo l’esercizio della caccia e danneggia la fauna selvatica, perché allungherebbe la stagione venatoria, aumenterebbe lo sfruttamento di singoli uccelli come esche per richiamarne altri e produrrebbe uno «svilimento della scienza e dei pareri di ISPRA», cioè l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
Nel ddl ci sono in effetti alcune cose che avvantaggiano l’economia che gira attorno alla caccia. E il ruolo dell’ISPRA, che è un ente pubblico che dà assistenza tecnica alle autorità sulle questioni ambientali, viene sicuramente ridimensionato nelle decisioni che riguardano la caccia. Ma molti dei cambiamenti previsti non fanno altro che regolarizzare una serie di cose che i cacciatori fanno già da tempo, in deroga.
La legge che in Italia regolamenta la caccia infatti è del 1992, e da allora sia l’ambiente che la fauna selvatica sono molto cambiati: i terreni coperti da boschi sono aumentati molto e sono cresciute anche le popolazioni di alcuni animali, prima fra tutte quella dei cinghiali, che in molti contesti causano danni alle attività umane.
Cosa già si fa
L’articolo 7 del ddl per esempio rimuove il vincolo che impone ai cacciatori di praticare un unico metodo di caccia alla volta. Secondo la legge i cacciatori non potrebbero cacciare in maniera itinerante e allo stesso tempo avere un appostamento fisso, ma è un vincolo che già non esiste più per la caccia al cinghiale. In modo simile l’articolo 8 consente l’uso di «strumenti ottici e optoelettronici», cioè dispositivi come i binocoli e altri visori che permettono di vedere gli animali al buio grazie alle radiazioni infrarosse, per la caccia di selezione agli ungulati, la categoria di animali a cui appartengono i cinghiali. Anche questa cosa si fa già coi cinghiali, nella caccia di selezione che ha lo scopo di ridurne la popolazione seguendo criteri scientifici.
La legge però non cambia il fatto che è vietato cacciare di notte, prima dell’alba. Al massimo consente ai cacciatori di cercare cinghiali al buio, usando visori notturni, per poi sparare una volta che fa luce.
Un altro articolo che regolarizza una cosa che già si fa è il 12, che prevede che alle operazioni di controllo della fauna selvatica, cioè alle battute di caccia decise dalle autorità per ridurre il numero di animali dannosi e che sono guidate dalle forze dell’ordine, possano partecipare anche «guardie venatorie volontarie». Si tratta di semplici cacciatori che hanno ricevuto un’apposita autorizzazione: anche questa è una cosa che succede già.
Chi ci guadagna
A parte questo, c’è tutto un settore economico che il ddl avvantaggia, e che non comprende solo i produttori di armi ma un indotto più vasto. Per cacciare si usano un abbigliamento specifico, accessori di vario genere per le armi, per i cacciatori e per i loro cani, strumenti che servono per macellare e scuoiare le carcasse degli animali uccisi, oltre a dispositivi elettronici come le fototrappole e i richiami per attirare gli uccelli. Per esempio l’articolo che consente l’uso dei visori notturni – oggetti che costano centinaia di euro – favorisce chi li produce, perché stabilisce in maniera più chiara che possono essere usati.
Inoltre esistono aziende che danno la possibilità di cacciare su terreni privati, e il ddl offre loro maggiori possibilità di guadagno. Queste aziende, colloquialmente chiamate “riserve di caccia”, sono di due tipi. Ci sono le aziende faunistico-venatorie, dove si pratica solo la caccia e che funzionano come associazioni a cui i cacciatori possono tesserarsi su invito. Secondo la legge del 1992 questo tipo di riserva di caccia non può avere fini di lucro. E poi ci sono le aziende agri-turistico-venatorie, che invece possono offrire anche altri servizi come la possibilità di fotografare semplicemente gli animali. In queste riserve i cacciatori pagano proprio per cacciare, generalmente animali di specie selvatiche allevati a questo scopo.
Il ddl interviene su questo settore perché rimuove il vincolo dell’assenza di lucro per le aziende faunistico-venatorie. Permette loro di vendere la carne prodotta con la caccia nei loro terreni e portare avanti altre attività economiche, dunque ne favorisce i proprietari.
Un altro aspetto del ddl che va incontro al settore della caccia è l’articolo 15, che dice che le licenze di caccia rilasciate dagli altri paesi dell’Unione Europea sono valide anche in Italia: questa misura potrebbe favorire il turismo venatorio da altri paesi, ma bisogna tenere conto che anche oggi chi ha interesse a cacciare in Italia può abilitarsi qui pur essendo residente all’estero. E che una licenza di caccia e il porto d’armi non bastano per cominciare a cacciare: serve anche un libretto di caccia concesso dalla regione in cui si vuole cacciare. Insomma, c’è una serie di limiti che continuano a valere.
La politica potrà dare un po’ meno ascolto alla scienza
Luca Giunti è guardiaparco delle aree protette delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, e per il suo lavoro deve anche vigilare sulle attività dei cacciatori. Osserva che nel complesso l’aspetto del ddl che può avere maggiori conseguenze sul lungo periodo è il parziale ridimensionamento del ruolo dell’ISPRA. Alcuni articoli della legge del 1992 prevedono che certe decisioni sulla conservazione e sulla gestione della fauna delegate alle regioni siano vincolate ai pareri degli scienziati e dei tecnici dell’ISPRA, mentre il ddl ne attenua il potere.
Gli articoli interessati sono il 4 e il 5, in cui si parla dei “richiami vivi”, cioè degli uccelli tenuti in gabbia e sfruttati per attirarne altri della stessa specie, usati soprattutto in alcune zone tra Lombardia e Veneto; e soprattutto l’11, che riguarda i calendari di caccia: la legge attuale prevede che le regioni possano posticipare i termini delle stagioni di caccia solo con il consenso dell’ISPRA, mentre il ddl rende tale parere non vincolante.
Anche per altre ragioni, sia a livello simbolico che pratico, il disegno di legge dà più spazio ai rappresentanti delle associazioni di cacciatori.
Simbolicamente perché l’articolo 2 attribuisce alla caccia la capacità di «concorrere alla tutela della biodiversità», affermazione contestata dalle organizzazioni ambientaliste e discutibile dal punto di vista scientifico, dato che la caccia non favorisce la presenza di più specie diverse in uno stesso ambiente (il discorso è diverso per le attività di gestione della fauna, abbattimenti compresi, solitamente portate avanti per ridurre le popolazioni di specie che sono aumentate in modo eccessivo e ne danneggiano altre: specie come i cinghiali, che si sono diffusi in abbondanza proprio per le immissioni fatte dai cacciatori nei decenni passati). Nella pratica perché dà un ruolo maggiore al Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale (CTFVN) ricreato nel 2023, di cui fanno parte anche i rappresentanti dei cacciatori, oltre a quelli di due ministeri, delle regioni, dell’ISPRA e di altri enti.
E la caccia in spiaggia?
Uno degli aspetti del ddl che sono stati più discussi negli ultimi mesi riguardava l’inclusione delle aree del demanio forestale nelle zone in cui le regioni possono permettere la caccia, perché secondo un’interpretazione di una bozza di legge arrivata ai giornali avrebbe permesso la caccia anche sulle spiagge.
Il testo del ddl esplicita che le spiagge sono escluse, le foreste invece no. Giudicare che conseguenze potrà avere l’estensione delle zone di caccia al demanio forestale non è immediato: secondo Giunti una possibile interpretazione è che si potranno uccidere gli animali anche in aree dove oggi è vietato per le attività di controllo della fauna, un’altra è che i piani faunistico-venatori delle regioni saranno più completi perché basati sui territori reali in cui vivono gli animali, che non tengono conto dei confini umani.
«Il demanio forestale dello Stato e delle regioni è anche il demanio dei cittadini che non vanno a caccia, ma passeggiano, vanno in bicicletta o a funghi», aggiunge Giunti, «quindi mi auguro che i piani faunistico-venatori delle regioni, che vengono fatti da tecnici professionisti, ne tengano conto». In ogni caso molto dipenderà anche dagli orientamenti – politici e non solo – delle singole regioni, che si occupano dei piani e dei calendari di caccia.
Dopo la discussione nelle commissioni, il testo verrà sottoposto alle aule parlamentari in una versione definitiva, che i parlamentari potranno solo approvare o meno, senza proporre modifiche. È una modalità non proprio abituale ma nemmeno così rara, che sicuramente restringe il dibattito e impedisce ai singoli parlamentari di proporre emendamenti al disegno di legge. Il direttore generale della LIPU Danilo Selvaggi ha criticato duramente questa scelta, e ha chiesto all’opposizione di pretendere invece una discussione in aula: se un decimo dei senatori la chiedesse, il ddl dovrebbe essere discusso articolo per articolo.
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