Senza questa clinica, abortire in Portogallo sarebbe difficilissimo
Perché negli ospedali pubblici portoghesi gli obiettori sono circa l'80 per cento, una percentuale ancora più alta che in Italia
di Antonella Serrecchia

La Clinica dos Arcos si trova in cima a una salita in un tranquillo quartiere di Lisbona. Da fuori sembra una clinica privata anonima, ma senza questo posto ogni anno migliaia di donne che vogliono interrompere una gravidanza avrebbero un problema. Circa un terzo degli aborti compiuti in Portogallo avviene qui. L’altissimo numero di obiettori di coscienza – in un paese ancora molto cattolico – rende infatti molto complicato effettuare la procedura negli ospedali pubblici, e questa è l’unica clinica privata nel sud del paese convenzionata col pubblico e autorizzata a praticare aborti.
Ancora oggi la legge portoghese sull’aborto è una delle più restrittive dell’Europa occidentale. È stato decriminalizzato solo nel 2007, dopo due referendum che non raggiunsero il quorum (al secondo, però, tra i voti espressi vinse il sì). Oggi l’aborto è permesso soltanto entro le prime 10 settimane di gestazione: nella maggior parte dei paesi europei il limite è tra le 12 e le 14. Ci sono eccezioni solo per le gravidanze che mettono a rischio la salute della donna e gli stupri accertati da un giudice.
Amnesty International ha calcolato che dalla sua approvazione fino al 2024, 159 persone sono state denunciate per crimini legati all’aborto e 33 sono state condannate per violazione della legge sulle interruzioni di gravidanza. Tra queste anche una donna di 22 anni che abortì nel 2020 entro le 10 settimane, ma fuori dal servizio sanitario nazionale e senza rispettare il vincolo delle due visite con medici diversi.

Rua da Mãe d’Água, dove si trova la clinica, Lisbona, 6 giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)
La Clinica dos Arcos, spiega il direttore Raul Sanchez, esegue all’incirca 6mila interruzioni di gravidanza l’anno, tra aborti farmacologici e chirurgici. Il numero è in aumento da alcuni anni: non perché gli aborti siano in aumento in assoluto, dice Sanchez, ma perché sempre più donne vengono indirizzate qui dal servizio sanitario nazionale, che non è nelle condizioni di applicare la legge per via della pervasività degli obiettori di coscienza, cioè specialisti che per ragioni personali si rifiutano di praticare interruzioni di gravidanza.
In teoria la legge prevede un iter molto chiaro: la donna che contatta l’ospedale pubblico dovrebbe ricevere entro cinque giorni un appuntamento per la prima visita, durante la quale un medico deve accertare la gravidanza e le settimane di gestazione. Deve poi passare un «periodo di riflessione» di almeno tre giorni, al termine dei quali può richiamare per fissare l’appuntamento in cui verrà effettuata la procedura.
La legge è molto chiara anche rispetto al diritto all’obiezione, garantito a medici e infermieri per «tutti gli atti relativi» all’interruzione di gravidanza (in Italia, invece, sono tenuti ad assistere la donna prima e dopo la procedura). Allo stesso tempo stabilisce che il diritto all’obiezione non debba interferire con le capacità della struttura di offrire il servizio. Di fatto però lo fa.
In Portogallo il 30 per cento degli ospedali pubblici non effettua aborti perché non ha il personale per farlo, e in molte strutture non è indicato il numero da chiamare per avere informazioni, previsto per legge. Nel febbraio 2023 nei 31 ospedali del Portogallo continentale c’erano solo 81 professionisti tra il personale di ostetricia e ginecologia disponibili a praticare interruzioni di gravidanza: una percentuale di obiettori superiore all’80% del totale (in Italia, dove già è molto alta, è in media del 63% tra i ginecologi, del 41% tra gli anestesisti e del 33% tra gli infermieri).

La sala dove vengono eseguiti gli aborti chirurgici, Clinica dos Arcos, Lisbona, 6 giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)
Il risultato è che molte donne vengono rimbalzate da un ospedale a un altro, accumulando ritardo e frustrazione, come ha estesamente raccontato fra gli altri la giornalista Fernanda Câncio in varie inchieste sul tema pubblicate sul quotidiano Diário de Notícias.
Questo è il momento in cui entra in gioco la Clinica dos Arcos. Quando nel pubblico non si trova posto nei tempi richiesti, le donne vengono indirizzate qui, dove hanno sviluppato un sistema per dare priorità a quelle che sono più vicine al termine legale delle 10 settimane. Per quelle che arrivano alla clinica passando dal servizio sanitario nazionale, l’aborto è gratuito; per le altre – che magari hanno meno tempo per aspettare i tempi del pubblico – ha un costo di circa 600 euro.
Come avviene in questi casi la distribuzione del personale obiettore non è omogenea sul territorio, e ci sono aree completamente scoperte. Per esempio le Azzorre, isole portoghesi nell’Atlantico dove vivono circa 250mila persone, e dove da circa un anno nessuno dei tre ospedali pubblici garantisce l’accesso all’aborto. Le donne che vogliono effettuare l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) vengono quindi mandate nel Portogallo continentale, spesso proprio alla Clinica dos Arcos. Lo stato copre le spese del servizio, del viaggio e dell’alloggio, ma percorrere quasi 1500 chilometri per abortire è ha comunque un costo: comporta un lungo allontanamento da casa e dal luogo di lavoro, e non tutte possono permetterselo.
«Immagina di vivere su un’isola che non hai mai lasciato, dove lo stigma è ancora più diffuso perché tutti si conoscono. Chiami l’ospedale e ti dicono semplicemente che non fanno aborti, ti spediscono sul continente. Tu vorresti che nessuno sapesse che stai abortendo, magari hai una relazione abusante e non vuoi che nemmeno tuo marito lo sappia, ma devi andare via per una settimana», spiega Patricia Cardoso, attivista e fondatrice dell’associazione Escolha.
Escolha in portoghese vuol dire “scelta”, ed è l’unica in Portogallo a occuparsi esclusivamente di IVG. Organizza incontri e corsi nelle scuole e nelle università, ma soprattutto offre informazioni e sostegno a centinaia di donne all’anno.

La postazione dove viene effettuata la visita di datazione della gravidanza, Clinica dos Arcos, Lisbona, 6 giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)
Le difficoltà descritte finora si ritrovano nei numeri. In un rapporto dell’Entidade Reguladora da Saúde (ERS), l’autorità sanitaria portoghese, si legge che tra il 2023 e il 2025 il limite dei cinque giorni per ricevere il primo appuntamento e avviare l’iter per interrompere la gravidanza è stato oltrepassato quasi nel 30 per cento dei casi, arrivando anche a due settimane. Se si considerano i tempi per rendersi conto di un ritardo e poi per accertare una gravidanza, si capisce quanto sia facile superare il limite delle 10 settimane o arrivarci molto vicino.
La conseguenza è una notevole differenza tra il numero di donne che sono riuscite a ottenere un appuntamento per la prima visita e ci sono andate, e quelle che poi hanno effettivamente abortito in Portogallo: sono oltre 7mila, secondo l’ERS. Non si sa cosa sia accaduto a ciascuna di loro: alcune potrebbero aver cambiato idea, altre (una percentuale residuale, secondo gli esperti sentiti dal Post) potrebbero aver fatto ricorso ad aborti clandestini.
Quelle che possono permetterselo probabilmente hanno superato il confine e sono andate in Spagna a spese proprie, dove il limite è di 14 settimane. Il tragitto Portogallo-Spagna è il secondo più percorso in Europa dalle donne che vanno all’estero per abortire (il primo Irlanda-Regno Unito). La newsletter sul Portogallo Iberica, della giornalista Roberta Cavaglià, ha raccolto in questo numero le testimonianze che alcune di queste donne hanno dato alla stampa portoghese.
Dalla Clinica dos Arcos spiegano che anche loro hanno avuto qualche difficoltà a formare i team per l’IVG. «Per un aborto chirurgico ti servono due ginecologi, un anestesista e almeno tre infermieri non obiettori», dice Rui Marques de Carvalho, ostetrico, ginecologo e direttore clinico della Clinica. Al momento 25 membri del personale sanitario della clinica si occupano di aborti, e soltanto due dei medici sono portoghesi, spiega: gli altri fanno avanti e indietro dalla Spagna.
Prima di arrivare alla Clinica dos Arcos il dottor de Carvalho è stato a lungo nel settore pubblico dove, dice, lo stigma è molto diffuso. Lui è sempre stato un sostenitore del diritto di scelta delle donne (anche prima della legalizzazione, dice), e all’ospedale Santa Maria si occupava anche di aborti.

Rui Marques de Carvalho, Lisbona, 6 giugno 2025 (Antonella Serrecchia/Il Post)
«C’erano colleghi che ci scherzavano su, dicevano ‘sta arrivando l’assassino’», racconta. Alcuni, dice, non praticano aborti per non essere oggetto di battute, altri pensano possa essere un ostacolo alla loro carriera perché nella cultura di massa l’aborto non è ben visto e i movimenti antiabortisti sono molto diffusi.
Sono presenti anche davanti alla Clinica: di fronte c’è un edificio ad angolo, sulla cui porta a vetri è stampata un’immagine gigante di Madre Teresa di Calcutta; su una delle finestre un cartello che dice «sei incinta? hai bisogno di aiuto?». È di un’associazione che si chiama Mãos Erguidas, sono anti-scelta. De Carvalho racconta che fermano le donne che vogliono entrare nella clinica e cercano di convincerle a non abortire. A volte si riuniscono qui davanti per pregare.

La sede di Mãos Erguidas, di fronte alla Clinica dos Arcos, 6 giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)
Il Portogallo è un paese molto cattolico, in cui il ruolo della famiglia tradizionale è centrale: è la principale spiegazione della ritrosia a riconoscere il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non desiderata. Ma c’è anche un altro aspetto, che riguarda la storia delle donne. Lo spiega Giulia Strippoli, storica e ricercatrice all’Istituto di Storia Contemporanea dell’Universidade Nova di Lisbona, che tra le altre cose ha approfondito la storia dei movimenti femministi portoghesi.
«Fino al 1974 in Portogallo c’era ancora la dittatura, durante la quale le donne hanno sofferto molto per la disuguaglianza sancita dalla legge e per l’isolamento. Per esempio nel 1970 c’era ancora un tasso di analfabetismo di oltre il 60 per cento». In queste condizioni creare un movimento per l’accesso all’aborto «era assolutamente impensabile», dice Strippoli. Anche i primi movimenti femministi degli anni Settanta non sono paragonabili rispetto a movimenti francesi o italiani, ma le istanze e le preoccupazioni erano le stesse, aggiunge Strippoli.
Lo racconta anche Cardoso, la fondatrice dell’associazione Escolha. Secondo lei oggi in Portogallo è difficile parlare di aborto anche tra donne, anche nei circoli femministi: è come un tabù. Secondo una stima molto citata circa l’80 per cento dei portoghesi si identifica come cattolico, e ancora oggi anche le persone giovani sono più cattoliche rispetto alla media europea (anche se la differenza si sta progressivamente assottigliando).
Cardoso ha fondato Escolha dopo aver sperimentato in prima persona la complessità del sistema portoghese per l’accesso all’IVG, nel 2020. «Avevo 32 anni ed ero finanziariamente stabile, ma sapevo di non voler essere una madre». Racconta di essersi resa conto che trovare informazioni era molto difficile, e che c’era molto giudizio, soprattutto nei confronti delle donne adulte. Il messaggio che cerca di far passare in tutti i modi è che l’aborto non deve essere per forza un’esperienza traumatica, e soprattutto non dovrebbe generare senso di colpa.
Ogni volta che una donna la chiama per chiedere informazioni e tenta di giustificarsi o spiegare come è rimasta incinta e perché vuole abortire, un’urgenza legata allo stigma che ancora esiste attorno all’aborto nel paese, Eschola le risponde: «non devi spiegarti. Ti ascolto, ma non devi spiegarmi. Hai deciso così per la tua vita, e mi basta».
A gennaio di quest’anno alcuni partiti di sinistra hanno presentato un progetto di legge per allungare il periodo per l’interruzione di gravidanza da 10 a 12 o 14 settimane. È stato respinto soprattutto a causa dei voti del Partito Socialdemocratico (di centrodestra), il più rappresentato in parlamento.
Nella stessa sessione è stato bocciato anche un altro progetto di legge, di segno opposto, presentato da Chega!, il principale partito di estrema destra. Tra le altre cose avrebbe introdotto l’obbligo per la donna di ascoltare il battito cardiaco del feto: è una delle tattiche usata dagli antiabortisti come ostacolo all’IVG, che fa leva proprio sul senso di colpa della donna per disincentivarla.
Alle ultime elezioni, nel maggio di quest’anno, Chega! ha ottenuto il suo miglior risultato di sempre, arrivando praticamente alla pari col Partito Socialista, al secondo posto. Il suo leader, André Ventura, si dichiara esplicitamente antiabortista, e dice – paradossalmente – che intende «rafforzare i diritti delle donne e il sostegno alle donne impedendo loro di realizzare l’interruzione volontaria di gravidanza».



