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  • Mercoledì 18 giugno 2025

Quando l’Iran e gli Stati Uniti erano alleati

Dal secondo dopoguerra, quando in Iran c'era la monarchia dello scià di Persia, e fino alla rivoluzione del 1979, che cambiò tutto

Lo scià Reza Pahlavi e il presidente statunitense Jimmy Carter alla Casa Bianca, nel 1977 (Benjamin E. “Gene” Forte/CNP)
Lo scià Reza Pahlavi e il presidente statunitense Jimmy Carter alla Casa Bianca, nel 1977 (Benjamin E. “Gene” Forte/CNP)
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Martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha fatto intendere di stare valutando la possibilità di un intervento statunitense nella guerra in corso tra Iran e Israele, stretto alleato degli Stati Uniti. Sul suo social Truth, Trump ha intimato all’Iran di accettare una «resa indiscussa» alle richieste israeliane, e ha minacciato in modo non troppo velato la possibilità che gli Stati Uniti uccidano Khamenei.

I rapporti tra Iran e Stati Uniti sono complessi da decenni, ma i due paesi non sono sempre stati nemici, anzi: per più di vent’anni l’Iran è stato il principale alleato statunitense in Medio Oriente, prima che la rivoluzione del 1979 cambiasse tutto.

Il colpo di stato del 1953
Nel secondo dopoguerra l’Iran era formalmente una monarchia costituzionale: c’era un re, che dal 1941 era lo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, un parlamento e un primo ministro. Il governo era influenzato dall’esterno e soprattutto dal Regno Unito, che era stato a lungo il paese occidentale con più grande influenza in Medio Oriente. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale i britannici si disimpegnarono gradualmente, e al loro posto arrivarono gli Stati Uniti, che individuarono proprio nell’Iran dello scià un valido alleato per la regione.

Lo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi con la sua seconda moglie, Soraya Esfandiary Bakhtiari, 17 febbraio 1955 (Getty Images)

La stabilità dell’Iran come paese filoccidentale venne messa in discussione all’inizio degli anni Cinquanta. Nel 1951 venne nominato primo ministro Mohammed Mossadegh, uno dei più schierati oppositori dell’ingerenza occidentale. Subito dopo essere entrato in carica nazionalizzò la Anglo Iranian Oil Company, cioè la società britannica che sfruttava le risorse petrolifere iraniane. Fu considerato un affronto, e due anni dopo la CIA e l’MI6 (le agenzie d’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito) aiutarono a pianificare un colpo di stato che mise fine al governo di Mossadegh e consolidò ancora una volta il potere nelle mani dello scià.

Da quel momento in poi l’alleanza tra Iran e Stati Uniti si rafforzò parecchio: la monarchia era molto impopolare tra alcune fasce della popolazione, ma rimase al potere per oltre vent’anni grazie anche al loro supporto. L’Iran si impose come paese produttore ed esportatore di petrolio, e con quei proventi rafforzò il proprio esercito, che divenne il più forte in Medio Oriente anche per via delle armi statunitensi. Gli americani avevano così ottenuto un netto vantaggio in termini di sicurezza, oltre che economico: era in corso la Guerra fredda e avere un esercito alleato così forte faceva da argine all’allargamento della sfera di influenza dell’Unione Sovietica.

Il primo ministro Mohammed Mossadegh durante una protesta davanti al parlamento, 10 febbraio 1951 (Getty Images)

Fu sempre in quest’ottica che proprio gli Stati Uniti iniziarono ad appoggiare lo sviluppo del programma nucleare iraniano, lo stesso di cui si discute in questi giorni e che ora gli Stati Uniti vorrebbero smantellare.

Gli Stati Uniti ottennero poi anche altri vantaggi che rafforzarono ulteriormente l’alleanza con l’Iran: nel 1954 per esempio Pahlavi firmò un accordo con Stati Uniti, Regno Unito e Francia che garantiva alle compagnie petrolifere dei tre paesi il 40 per cento dei proventi del petrolio per 25 anni.

La “rivoluzione bianca”
Negli anni successivi gli Stati Uniti cercarono di rafforzare la propria influenza anche in altri modi. A partire dal 1963 appoggiarono un programma di riforme molto ampie che divenne noto come “rivoluzione bianca”: furono attuate dallo scià ma suggerite dall’amministrazione statunitense di John F. Kennedy, per “anticipare” in qualche modo le spinte di cambiamento che avrebbero potuto far guadagnare consensi all’opposizione comunista. Tra le altre cose venne esteso il diritto di voto alle donne, vennero creati un sistema pensionistico e sanitario, venne introdotta l’istruzione obbligatoria anche nelle campagne.

L’Iran restava però un paese molto religioso, e l’influenza del clero fu probabilmente sottovalutata dagli Stati Uniti. La modernizzazione in senso liberale avvenne troppo velocemente, e fu accusata di essere in realtà una malcelata “occidentalizzazione”. Anche le riforme economiche non ebbero il successo sperato, e ottennero al contrario di aumentare il malcontento tra la classe dei grandi proprietari terrieri, che ne uscirono svantaggiati, e tra la popolazione, che dovette affrontare le conseguenze di una crisi economica.

John Kennedy con lo scià Pahlavi alla Casa Bianca, 13 aprile 1962 (Getty Images)

La rivoluzione del 1979, che cambiò tutto
Tra gli oppositori del programma di riforme emerse una figura che divenne centrale nella storia del paese, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, esponente del clero sciita in esilio a Parigi che si fece conoscere nel paese grazie alla diffusione di audiocassette con le sue prediche eversive e i discorsi contro lo scià. Quando Khomeini rientrò a Teheran, il primo febbraio 1979, fu accolto da moltissimi sostenitori. Lo scià fu costretto a scappare, Khomeini divenne il leader della rivoluzione, marginalizzò tutte le altre forze politiche e di fatto trasformò l’Iran in una repubblica islamica, un paese molto diverso da quello che era esistito fino a quel momento.

La rivoluzione cambiò radicalmente le alleanze internazionali dell’Iran, con enormi conseguenze su tutto il Medio Oriente. Segnò anche la fine dell’alleanza con gli Stati Uniti.

La crisi degli ostaggi
A quel punto nel paese si era diffuso un forte sentimento anti americano: gli Stati Uniti erano accusati di aver interferito negli affari interni dell’Iran, e quando accettarono di accogliere lo scià in esilio nel proprio territorio (per curarlo da un grave linfoma) in Iran scoppiarono delle grosse proteste. I manifestanti chiedevano la consegna dello scià e le scuse degli Stati Uniti.

Nel febbraio del 1979 un gruppo di un centinaio di studenti iraniani assaltò l’ambasciata statunitense a Teheran e prese in ostaggio 66 persone come arma negoziale per ottenere l’estradizione di Reza Pahlavi (poi alcune vennero liberate e in tutto ne rimasero sequestrate 52). Khomeini appoggiò apertamente l’operazione, peggiorando le relazioni tra i due governi. Fu l’inizio di quella che divenne nota come “la crisi degli ostaggi”, che distrusse definitivamente i rapporti tra Iran e Stati Uniti.

In seguito al sequestro il presidente statunitense Jimmy Carter interruppe i rapporti diplomatici e impose dure sanzioni all’Iran, che subì per questo un grave danno economico. Nel frattempo provò per mesi a ottenere la liberazione dei cittadini statunitensi, ma senza successo. O meglio, la ottenne dopo 444 giorni, poco dopo aver perso le elezioni contro il Repubblicano Ronald Reagan anche a causa della disastrosa perdita di consensi causata dalla crisi. Sulla base degli accordi di Algeri, gli Stati Uniti promisero di non intervenire più nella politica iraniana.

Il presidente Carter durante una messa in onore degli ostaggi, 15 novembre 1979 (Photo by Morton Broffman/Getty Images)

Non fu così: soltanto un anno dopo scoppiò la guerra tra Iraq e Iran (uno dei più lunghi e sanguinosi conflitti mediorientali, durato fino al 1988): gli Stati Uniti appoggiarono con armi, addestramento e soldi le forze irachene. Dopo la rivoluzione del 1979 e la crisi degli ostaggi i rapporti tra i due paesi hanno vissuto alcuni alti (l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, per esempio) e molti bassi (la designazione dell’Iran come stato che sostiene il terrorismo, le sanzioni, il coinvolgimento iraniano nella guerra in Iraq del 2003, tra le altre cose).

Le relazioni oggi
I rapporti tra Stati Uniti e Iran sono poi rimasti ostili. Nel 2015 però, durante l’amministrazione di Barack Obama, i due paesi raggiunsero un accordo sul programma nucleare iraniano che venne considerato storico. Consentiva al paese di arricchire l’uranio per scopi civili (come la produzione di energia) e stabiliva rigidi controlli in cambio della sospensione delle sanzioni economiche, che stavano distruggendo l’economia iraniana. Nel 2018 però Trump definì l’accordo «il peggiore della storia», ne uscì in modo unilaterale e reintrodusse sanzioni ancora più dure, isolando il regime.

Per questo quando nell’aprile di quest’anno Trump ha annunciato che sarebbero stati riavviati i negoziati sul programma nucleare iraniano molti sono rimasti stupiti. Con l’inizio dei bombardamenti israeliani dello scorso 12 giugno le cose sono cambiate di nuovo, e ora Trump sembra convinto che un intervento diretto al fianco di Israele possa «porre fine per davvero» al programma nucleare iraniano, il principale strumento con cui il regime ha cercato di aumentare la propria influenza nella regione.