Scioperare a Prato è servito
Quasi trenta aziende cinesi del distretto tessile hanno fatto accordi con i sindacati per migliorare le condizioni dei lavoratori

Dal 30 maggio al 2 giugno c’è stata una serie di scioperi consecutivi nel distretto tessile di Prato, il più grande d’Europa e il punto di riferimento per la produzione dell’abbigliamento “made in Italy”. Il distretto è conosciuto però anche per il sistema consolidato di sfruttamento della manodopera in molte delle sue aziende, a conduzione cinese. Gli scioperi hanno smosso un po’ le cose: nelle scorse settimane 28 aziende hanno fatto accordi con i sindacati per garantire per la prima volta la settimana lavorativa di 40 ore. «È un numero eccezionalmente alto considerati i giorni di sciopero che abbiamo fatto», dice Sarah Caudiero, sindacalista del Sudd Cobas Prato Firenze, che da tempo si occupa della situazione dei lavoratori di aziende di questo tipo.
Gli scioperi, con lo slogan “Strike Days”, riguardavano aziende tendenzialmente piccole, da 10-15 dipendenti. Sono la maggioranza di quelle che compongono il distretto e producono soprattutto confezioni per abiti. Secondo il sindacato, in queste aziende le persone lavorano 12 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, con contratti a termine, spesso in nero e senza tutele, o a fronte di contratti part-time non rispettati. Non a caso gli ultimi scioperi si sono tenuti durante il ponte del 2 giugno: sono giorni in cui le aziende dovrebbero essere chiuse (la domenica e il festivo), ma in realtà nel distretto tessile di Prato non lo sono.
Agli Strike Days hanno partecipato anche diverse persone impiegate in aziende che avevano già migliorato le loro condizioni dopo altri scioperi di inizio aprile, per solidarietà con gli altri lavoratori. Gli scioperi sono stati concentrati: ce ne sono stati dodici venerdì 30 maggio, sabato altri tre, domenica una decina, e lunedì 2 giugno altri sei. Oltre alla settimana di 40 ore, i lavoratori coinvolti nei nuovi accordi sindacali hanno ottenuto contratti a tempo indeterminato (che garantisce anche il pagamento della malattia) e in alcuni casi una paga di base maggiore. Hanno inoltre ottenuto di potersi assentare per 40 giorni consecutivi all’anno per tornare nei loro paesi di origine, sommando le ferie e i giorni di aspettativa non retribuita.
Molte persone che hanno partecipato agli scioperi sono originarie del Pakistan, un’altra comunità di cui è ampiamente popolata la zona oltre a quella predominante cinese: capita spesso che a essere più sfruttati siano i richiedenti asilo, persone per cui è più difficile trovare lavoro e dunque sono costrette ad accettare condizioni pessime. Altri lavoratori che hanno scioperato provengono da Bangladesh e Afghanistan.
Coinvolgere i lavoratori con nazionalità cinese invece è più complicato: «Spesso vivono in case affittate dai loro stessi datori di lavoro, e per loro scioperare significa anche rischiare di avere problemi con la casa», spiega Caudiero. «Stiamo comunque facendo un percorso di sensibilizzazione per far capire che il sindacato è disposto a sostenere tutti i lavoratori che vogliano scioperare, indipendentemente dalla nazionalità».
I risultati di questi scioperi sono importanti anche perché nelle aziende del distretto tessile i controlli dell’ispettorato del lavoro sono poco risolutivi. Praticamente sempre si risolvono con sanzioni irrisorie o al massimo la regolarizzazione di alcuni lavoratori con contratti part-time. In pratica, le aziende in cui vengono riscontrate delle violazioni pagano le sanzioni ma dal giorno dopo mantengono le stesse condizioni di prima, e continuano a imporre comunque 12 ore al giorno di lavoro, tutti i giorni.
Il deterrente dei controlli non è quindi sufficiente, perché lo sfruttamento del lavoro è uno dei modi con cui queste aziende hanno continuato a guadagnare nonostante la grave crisi che ha colpito tutto il settore dell’abbigliamento negli ultimi anni.
Caudiero dice che sono aumentati i lavoratori nel distretto tessile di Prato disposti a scioperare. La cosa non è scontata anche perché a Prato è in corso la cosiddetta “guerra delle grucce”, un’espressione un po’ romanzesca usata dai giornali per indicare la lunga serie di scontri violenti tra gruppi criminali cinesi che puntano a controllare la produzione di grucce e più in generale il mercato della logistica dell’abbigliamento (quindi i trasporti e tutto ciò che serve per spostare i vestiti). Questi scontri si sono molto intensificati nell’ultimo anno, secondo la procura di Prato, che ormai da mesi parla apertamente dell’esistenza di una mafia cinese nel distretto. In questa situazione sono intimiditi, aggrediti e uccisi gli imprenditori, ma sono in pericolo anche molti lavoratori senza tutele che lavorano per loro e che quindi rischiano di essere coinvolti, per esempio, negli attacchi incendiari ai magazzini.
Il sindacato Sudd Cobas Prato Firenze sta organizzando nuovi scioperi che potrebbero iniziare tra circa due settimane.
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