Storia di una quasi morte sul lavoro
È successo nella piana del Fucino, ma nessuno l'ha raccontata: sono serviti sette mesi solo per denunciarla
di Angelo Mastrandrea

Al mercato di San Benedetto dei Marsi, un piccolo comune nella piana del Fucino in Abruzzo, ogni domenica mattina ci sono molti lavoratori marocchini; durante la settimana raccolgono la frutta e la verdura poi messa in vendita sui banchi. Uno di loro, un giovane uomo di 24 anni e impiegato in nero in una piccola azienda agricola della zona, ha raccontato al Post – chiedendo di non pubblicare il suo nome – un incidente sul lavoro che gli è accaduto sette mesi fa, molto grave e molto simile a quello in cui il 17 giugno del 2024 morì Satnam Singh, un lavoratore indiano impiegato nei campi intorno a Latina, nel Lazio.
Il 24enne – per maggiore leggibilità da qui in poi lo chiameremo A. – parla molto poco l’italiano. Un altro ragazzo che condivide la casa con lui lo ha aiutato a farsi capire traducendo dall’arabo. A. ha detto che la mattina del 30 ottobre del 2024 è rimasto impigliato in un ingranaggio di una macchina per la raccolta delle carote agganciata a un trattore, guidato dal titolare dell’azienda. Il conducente non si era accorto di nulla, ma un altro lavoratore lo ha visto finire sotto la mietitrice e si è messo a urlare, e così facendo gli ha salvato la vita. Le lame gli hanno provocato una profonda ferita tra la parte alta della gamba sinistra e il gluteo. Altri lavoratori che hanno assistito alla scena hanno raccontato che c’era molto sangue e che l’incidente si deve al fatto che per raccogliere più carote possibile, specialmente quando ci sono delle consegne urgenti, «si fa il lavoro veloce, non il lavoro normale».
Dopo l’incidente il proprietario dell’azienda agricola ha portato A. al pronto soccorso del vicino ospedale di Pescina. A. ha raccontato che il datore di lavoro gli ha detto di dire che è caduto da un muretto e poi è andato via, lasciandolo sanguinante davanti all’ingresso. Vista la gravità della ferita, i sanitari lo hanno trasferito in ambulanza al più grande e attrezzato ospedale di Avezzano, a 25 chilometri, dove gli è stata ricucita una «lacerazione in zona perianale». Nel referto dell’ospedale non sono menzionate le cause dell’infortunio e non è chiaro se l’ospedale abbia segnalato l’incidente alle autorità: è improbabile, perché se la questura avesse ricevuto qualcosa si sarebbe attivata subito (come sta facendo in questi giorni). L’ufficio stampa dell’azienda sanitaria da cui dipendono entrambi gli ospedali non conferma il ricovero di A., dice che sta verificando e che ci vuole del tempo perché sono passati mesi.
Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta giudiziaria, per accertare eventuali responsabilità del datore di lavoro. Le autorità che stanno svolgendo le indagini hanno chiesto di non diffondere il nome dell’azienda agricola coinvolta per non pregiudicare le indagini; il Post ha deciso per il momento di acconsentire a questa richiesta. L’azienda agricola su cui si sta indagando non risulta avere dipendenti, ma diversi testimoni hanno detto di aver visto persone al lavoro nei campi anche nei mesi successivi all’incidente.
La questura dell’Aquila è orientata a chiedere l’applicazione di un programma di protezione che prevede il trasferimento di A. in un centro di accoglienza per le vittime di caporalato, lontano dall’Abruzzo.

Il mercato di San Benedetto dei Marsi, 25 maggio 2025 (Angelo Mastrandrea/il Post)
– Leggi anche: Le mattine dei lavoratori indiani, a Latina
La convalescenza è stata lunga e dolorosa. A. ha trascorso diversi mesi a casa senza uscire perché non riusciva a camminare. Ancora adesso si muove con difficoltà. C’è un motivo se sono passati sette mesi dall’incidente senza che se ne avesse notizia: A. aveva deciso di non denunciare l’ex datore di lavoro (quello che i braccianti chiamano più spesso “padrone”) perché sperava che, una volta guarito, lo facesse tornare a lavorare e nel frattempo gli pagasse i due mesi in cui aveva già lavorato per lui. Sostiene che glielo avesse garantito mentre lo portava in ospedale, ma dal giorno dell’infortunio non lo ha più visto né sentito. Quando si è reso conto che i mesi passavano e non accadeva nulla, ha deciso di chiedere aiuto: ma anche qui ci è voluto tempo, perché non aveva un permesso di soggiorno.
Un uomo che condivide con lui la casa ha chiamato un altro lavoratore marocchino, che collabora con il sindacato FLAI (Federazione Lavoratori Agro Industria) CGIL. «Mi ha chiesto aiuto dicendomi che aveva in casa un ragazzo marocchino che si era fatto male e il padrone non l’aveva pagato, io sono andato a incontrarlo e gli ho consigliato di rivolgersi al sindacato, che avrebbe potuto offrirgli assistenza e anche una tutela legale», ha spiegato il sindacalista. Un giorno i due si sono presentati all’ufficio che il sindacato ha aperto a Trasacco, un altro comune della piana.
«Abbiamo capito subito che si trattava di una vicenda molto delicata, per questo abbiamo deciso di procedere con molta accortezza e per gradi: lo abbiamo aiutato innanzitutto a chiedere il permesso di soggiorno perché altrimenti rischiava di essere espulso, poi lo abbiamo convinto a denunciare tutto alle autorità competenti», ha detto il segretario abruzzese della FLAI CGIL, Luigi Antonetti. A. ha chiesto alla questura dell’Aquila un permesso di soggiorno finalizzato alla richiesta di protezione internazionale, che gli è stato garantito il 15 maggio. Ieri, il 27 maggio, sette mesi dopo il grave incidente, è stato convocato dall’ispettorato territoriale del lavoro per raccontare ciò che gli è accaduto. Ha consegnato i referti medici e ha spiegato a ispettori, finanzieri e poliziotti come è avvenuto l’incidente e il sistema di sfruttamento. Così è stata aperta l’inchiesta.
Nei 160 chilometri quadrati di terreni della piana del Fucino, un ex lago che fu prosciugato dal principe Alessandro Torlonia alla metà dell’Ottocento, secondo le stime dei sindacati – probabilmente al ribasso – lavorano almeno 6.500 persone. Da quelle parti, strade, piazze e persino un rifugio sono intitolati allo scrittore Ignazio Silone, che nacque in una casa del centro storico di Pescina da cui si vede tutta la piana e raccontò la vita dei contadini locali in romanzi come Fontamara e Vino e pane. Ora invece i braccianti provengono quasi tutti dal Marocco e lavorano per le 500 aziende agricole della zona, che coltivano agli, barbabietole, carote, finocchi, insalata e radicchio che finiscono nei mercati locali e nei supermercati.
Molti lavoratori dicono che nella piana si lavora dalle 12 alle 14 ore al giorno e «dobbiamo essere reperibili sempre, perché se ci sono dei carichi da consegnare cominciamo a lavorare anche di notte, con le torce sui cappelli, facciamo turni fino a ora di pranzo e a volte ci richiamano anche nel pomeriggio», dice uno di loro. Basta fare un giro fra i campi per notare che molti lavorano anche la domenica. I sindacalisti che lavorano nella zona spiegano che la maggior parte dei lavoratori ha contratti che non sono del tutto regolari né del tutto in nero, e per questo sono definiti in «grigio»: prevedono cioè un numero minimo di ore retribuite con regolari contributi previdenziali, mentre il resto viene pagato «fuori busta», spesso con compensi forfettari. Sono informazioni che i sindacalisti ricavano dalle esperienze raccontate dai braccianti stessi. A. invece era impiegato completamente in nero.

La tomba di Ignazio Silone a Pescina (Angelo Mastrandrea/il Post)
Ha raccontato che al momento dell’incidente era arrivato in Italia da due mesi, dopo un lungo viaggio prima in aereo da Casablanca a Istanbul, poi a piedi o con altri mezzi lungo la cosiddetta “rotta balcanica”, attraverso la Grecia, la Bulgaria, la Bosnia, la Serbia, la Croazia e la Slovenia, fino a Trieste e nel Fucino, dove conosceva alcuni connazionali. Aveva trovato lavoro in nero in pochi giorni, grazie a un intermediario marocchino che viene definito dai braccianti «caposquadra» e che è di fatto un caporale, cioè la persona che assolda i braccianti per conto di un imprenditore e si occupa del loro trasporto sul posto di lavoro, in cambio di una tangente.
Il caporale lo portava nel campo con un pulmino e lo riportava a casa facendosi pagare 5 euro al giorno, e poi avrebbe dovuto trattenere 2 dei 6 euro della paga oraria previsti per il bracciante: che però non li ha mai ricevuti, perché al momento dell’infortunio non era ancora stato pagato una sola volta.

La piazza di Trasacco, uno dei comuni della piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)
Antonetti spiega che nel Fucino molte aziende si appoggiano alla rete di caporali per trovare i lavoratori che gli servono e negoziare le paghe. Lo stesso fanno i lavoratori, che si rivolgono agli intermediari, spesso loro connazionali, per trovare lavoro e per risolvere qualsiasi problema.
I «capi», come vengono chiamati, in genere fanno tutto: reclutano i lavoratori, li organizzano, gestiscono le pratiche con i vari istituti e li trasportano nei campi (in genere su pulmini di proprietà del datore di lavoro). In questo modo controllano l’intera filiera, facendosi pagare per ogni servizio.



