La storia incredibile di questa stretta di mano
Sei mesi fa Ahmed al Sharaa era un terrorista ricercato, e ora incontra Donald Trump da presidente della Siria

Qualche tempo fa sui social era in voga scrivere qualcosa come «Sì, questo sono io. Vi starete probabilmente chiedendo come sia finito in questa situazione». Era un modo per dire: nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere quello che sta vedendo. Il presidente siriano ed ex terrorista ricercato Ahmed al Sharaa che oggi ha stretto la mano al presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe dire questa cosa spesso, considerato quello che è successo negli ultimi sei mesi.
All’inizio di dicembre del 2024 al Sharaa era il comandante di Hayat Tahrir al Sham, un gruppo di insorti islamisti assediato dall’esercito del dittatore Bashar al Assad in un’enclave nel nord della Siria. Come tutti i leader usava un nome di battaglia, il suo era Abu Muhammad al Jolani. Il nome da jihadista è formato da Abu, che in arabo vuol dire padre, più il nome di un figlio (in questo caso Muhammad) o di una figlia e un’altra specificazione che di solito riguarda la provenienza: nel caso di al Jolani è la regione del Golan (al Julan in arabo).
Sulla sua testa c’era una taglia di dieci milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti perché tra il 2011 e il 2017 al Jolani era stato un capo di alto livello in entrambi i gruppi terroristici più pericolosi del mondo, prima per lo Stato Islamico e poi per al Qaida. Il sito del dipartimento di Stato americano aveva una pagina dedicata a lui con la sua foto e la scritta “Stop this terrorist”.
“This terrorist” ha incontrato in modo cordiale Trump nel palazzo reale di Riad in Arabia Saudita, dopo che il presidente statunitense martedì aveva annunciato la fine delle sanzioni americane contro la Siria. La taglia personale su di lui era già stata annullata a dicembre. Il faccia a faccia è stato favorito dal principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman.
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Domenica il quotidiano britannico Times ha scritto che al Sharaa in questi giorni avrebbe fatto arrivare a Trump una serie di proposte interessanti, per ingraziarselo. Tra queste ci sarebbe anche la costruzione di una Trump Tower a Damasco, capitale della Siria. La Trump Tower originale è un grattacielo costruito a Manhattan negli anni Ottanta ed è diventato il simbolo del potere di Trump da uomo d’affari. Inoltre al Sharaa avrebbe offerto a Trump un accordo sulle risorse del sottosuolo della Siria, che ricorda l’offerta fatta dall’Ucraina per portare il presidente statunitense dalla propria parte – un piano che poi divenne una storia tormentata, perché Trump pretendeva condizioni troppo onerose per gli ucraini.
Se la notizia fosse confermata, vorrebbe dire che il presidente siriano, che ha passato anni della sua vita da latitante a sfuggire ai droni degli Stati Uniti, ha studiato Trump e vuole far colpo su di lui con alcune proposte che sono di effetto sicuro. Fare appello alla sua vanità da imprenditore e far intravedere la possibilità di un accordo economico sbilanciato a vantaggio degli Stati Uniti rientrano senza dubbio in questa categoria.
Inoltre tra le offerte fatte da al Sharaa ci sarebbe anche il riconoscimento del controllo di Israele sulle alture del Golan, e il riconoscimento di Israele stesso da parte dello stato siriano, con un accordo diplomatico che dovrebbe essere siglato in modo trionfale da Trump. Questo implicherebbe l’ingresso della Siria negli accordi di Abramo, cioè i grandi accordi ideati da Trump nel suo primo mandato per favorire il riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi e la pace in Medio Oriente.
Qui si vedrebbe il pragmatismo diplomatico del presidente siriano. Adesso l’esercito siriano devastato da anni di guerra civile non ha le forze per opporsi a Israele. Far fare a Trump la figura del paciere e dell’abile negoziatore cedendo a Israele un territorio che di fatto è irrecuperabile da molti anni sarebbe una manovra interessante, perché la foto dell’accordo potrebbe finire nei libri di storia. Chissà come la prenderebbero molti dei suoi uomini, che considerano combattere contro Israele un dovere fondamentale. Ma per ora siamo nel campo delle speculazioni.

Il discorso di al Sharaa alla moschea di Damasco, 8 dicembre 2024 (AP Photo/Omar Albam, File)
Il ribaltamento della situazione che ha portato al Sharaa dai covi della regione siriana di Idlib dove si nascondeva agli incontri di alto livello con il presidente francese Emmanuel Macron a Parigi e con Trump è stato rapido. Eccolo in sintesi. Alla fine di novembre il gruppo armato di al Sharaa/al Jolani ha cominciato un’offensiva militare contro le forze di Assad. All’inizio sembrava una manovra di routine, nella lunga serie di attacchi e contrattacchi esasperanti e senza conseguenze reali che in questi anni hanno fatto sparire la Siria dai notiziari nel disinteresse generale. Questa volta però è successa una cosa diversa. L’esercito di Assad, più consumato e stanco di quel che si credeva, ha smesso di combattere. Gli uomini di al Jolani hanno conquistato città dopo città. A volte il tempo per prendere una città era giusto il tempo necessario ad arrivarci.
Nel giro di dieci giorni al Jolani ha attraversato la Siria da nord a sud, è arrivato nella capitale Damasco da trionfatore, si è inginocchiato in piazza degli Umayyadi ed è entrato nella grande moschea circondato dai suoi combattenti. Poche ore prima il dittatore Assad era salito su un aereo messo a disposizione dalla Russia ed era scappato con la famiglia a Mosca.
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Il pragmatismo di al Sharaa ha motivi forti, non è soltanto una strategia personale. Dopo tredici anni di guerra e di sanzioni internazionali, l’economia siriana è allo stremo. I dipendenti pubblici prendono stipendi da pochi dollari al mese e talvolta nemmeno quelli. Le città sono distrutte. Molti siriani di talento sono scappati all’estero. Senza aiuti dall’esterno la Siria rischia il tracollo economico. Il governo siriano deve fare accordi rapidi con altri governi per ricevere soldi pubblici e investimenti privati. È un problema comune a molti rivoluzionari vittoriosi: fare la rivoluzione è un conto, far funzionare uno stato è un’altra cosa.
Del periodo trascorso da al Jolani nello Stato islamico non si sa molto. Ad aprile di quest’anno però sui canali Telegram del gruppo terroristico un simpatizzante ha pubblicato un vecchio manoscritto dello storico portavoce, Abu Muhammad al Adnani, un siriano ucciso da un drone americano in Siria nel 2016. Dal manoscritto, che non era mai stato visto prima ed è stato tradotto dal bravo ricercatore Aymenn al Tamimi, manca una pagina, ma è comunque generoso di informazioni nuove.
Nel documento c’è scritto che al Jolani andò in Iraq nel 2005, perché a quel tempo nel paese c’era una massiccia forza militare americana dopo l’invasione avvenuta nel 2003 e molti siriani si univano ai gruppi jihadisti per andare a combattere contro i soldati degli Stati Uniti. Al Jolani si arruolò in al Qaida in Iraq, uno dei gruppi più estremisti, al tempo guidato dal giordano Abu Mussab al Zarqawi, che l’anno prima era diventato noto in tutto il mondo perché aveva decapitato un ostaggio statunitense davanti a una telecamera e aveva diffuso il video su internet.
Al Jolani era in un’unità di al Qaida che piazzava bombe artigianali sulle strade usate dai soldati americani. Quelle bombe, chiamate con l’acronimo in inglese IED (Improvised Explosive Devices) erano l’arma più temuta della guerriglia estremista, perché facevano saltare in aria i blindati americani durante gli spostamenti e le pattuglie. Dopo appena due mesi, però, al Jolani fu catturato e mandato nel carcere di sicurezza di Camp Bucca, nel sud dell’Iraq.
Camp Bucca in teoria era stato costruito dai soldati americani per isolare i prigionieri di al Qaida in Iraq, ma si era trasformato in un campo di formazione per estremisti, che avevano l’opportunità di conoscersi, se già non si conoscevano, e di elaborare dottrine e strategie per il futuro. Tutti i capi dello Stato islamico degli anni Dieci hanno passato del tempo a Camp Bucca. Al Jolani era una recluta studiosa e di buone maniere e in prigione si conquistò la simpatia dei capi, inclusa quella di Al Adnani. Erano gli anni fra il 2005 e il 2010. È certo che in qualche archivio il Pentagono conserva ancora una copia degli interrogatori fatti ad al Jolani in quel periodo.
A Camp Bucca c’era anche Abu Bakr al Baghdadi, che poi diventerà il capo dello Stato islamico. Quando al Jolani uscì grazie a un’amnistia, che all’epoca erano concesse con più facilità nel tentativo di mitigare il trauma della guerra, al Baghdadi gli propose di fare il capo dello Stato islamico in Siria. Per testarlo gli fece fare prima il capo del gruppo a Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, dove i terroristi dello Stato islamico facevano ogni giorno decine di attentati contro ogni iracheno accusato di lavorare, anche alla lontana, per il governo. Anche i postini e i vigili urbani erano considerati collaborazionisti e come tali abbattuti a pistolettate per strada.
Dopo due mesi di prova al Jolani fu mandato in Siria. Ma, come c’è scritto nel documento di al Adnani, aveva in mente molto più la sua gloria personale che l’operazione per espandere lo Stato islamico, benché il gruppo-madre iracheno per finanziare la sua missione dividesse con lui la metà della cassa, dove erano depositati tutti i soldi. Tutti gli emissari mandati da al Baghdadi a verificare come stessero le cose tornavano con la stessa diagnosi: al Jolani considera il gruppo in Siria come una cosa sua e non vuole obbedire. All’epoca anche il nome del gruppo era diverso, per non allarmare troppo i siriani, ed era Jabhat al Nusra, il “fronte del sostegno” – dove il sostegno era quello alla ribellione in corso contro Assad, che in quei mesi stava diventando un fatto enorme. Al Jolani guidava un gruppo di estremisti mascherato da insorti che prendeva ordini e soldi dallo Stato islamico in Iraq ma in pratica era una fazione scissionista.

Al Jolani in un video del 2016 (Militant UGC via AP, File)
La scissione arrivò davvero nell’aprile 2013, lo Stato islamico e Jabhat al Nusra divennero due gruppi differenti e al Jolani dichiarò la sua fedeltà ad al Qaida, per darsi un minimo di legittimità. La rivoluzione siriana, che era nata due anni prima come una protesta non violenta per ottenere riforme pubbliche, la libertà politica – quindi la possibilità di votare altri partiti oltre a quello di Assad – e altre libertà basilari come la libertà di stampa, si era trasformata in un grande bisticcio tra jihadisti. Gli attivisti anti Assad erano troppo occupati a sopravvivere alla caccia data loro sia dal regime sia dagli estremisti per combinare qualcosa.
Al Adnani ha scritto in fondo al suo testo su al Jolani: «È stato accecato dalla ricchezza che possiede, mentre l’attenzione dei media e gli elogi che riceve gli hanno rubato il cuore, e lo status che gli ha conferito lo sceicco [Al Baghdadi] gli ha fatto perdere il senno». È un giudizio duro, ma non bisogna dimenticare che stiamo parlando di conflitti interni tra jihadisti. Era gente feroce. Al Adnani nel 2014 apparve in video con il volto coperto mentre bruciava vivo con del carburante e dentro a una gabbia un pilota di caccia giordano che era stato così sfortunato da precipitare nel territorio dello Stato islamico.
Nel 2017 al Jolani, conscio che l’affiliazione con al Qaida gli creava molti più problemi di quanti non ne risolvesse, fece un comunicato video per dichiarare l’uscita della sua fazione dal gruppo terroristico. Da quel momento entrò anche in un periodo di apparizioni pubbliche e di trasformazioni stilistiche, che andavano di pari passo con il mutamento delle sue posizioni ideologiche. Se prima si presentava su al Jazeera con il volto coperto e un manto sulla testa, poi cominciò a girare in vestiti militari più modesti, da insorto generico – più in stile Che Guevara che nello stile del califfato, fatto di mantelli neri per ricordare i primi califfi della dinastia Abbaside.
Alcune delle bande che comandava non hanno fatto la stessa trasformazione e in questi primi mesi post Assad hanno partecipato nella zona della costa siriana a combattimenti sanguinosi contro i nostalgici del dittatore siriano, di fede alawita, finiti in alcuni casi con stragi di civili.
Oggi la metamorfosi è compiuta. Ahmed al Sharaa incontra ogni settimana diplomatici asiatici, europei e arabi, gira con indosso un completo blu scuro e tratta con Trump.

Al Sharaa, Trump e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman a Riad il 14 maggio 2025 (Bandar Aljaloud/Saudi Royal Palace via AP)
Con questa sua ultima decisione di annullare le sanzioni contro la Siria il presidente degli Stati Uniti ha rafforzato le simpatie che riscuote presso una parte dei siriani, che non dimentica quando per due volte, durante il suo primo mandato, ordinò di bombardare l’esercito di Assad come punizione – perché gli assadisti avevano usato armi chimiche contro i civili. Quei siriani ricordano anche con favore l’uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani, bombardato da un drone americano nel gennaio del 2020. Suleimani era stato a fianco di Assad uno dei protagonisti della repressione di regime contro i ribelli siriani. Negli anni scorsi circolavano meme che prendevano in giro con benevolenza questa simpatia a sorpresa e davano a Trump un nome da jihadista siriano: Abu Ivanka al Amriki. Il padre di Ivanka, l’americano.



