Com’è fare la giuria in un grande festival di cinema

Regole, consuetudini e storie attorno a un lavoro non pagato che può essere prestigioso e gratificante ma anche burrascoso e frustrante

La presidente della giuria del festival di Cannes Greta Gerwig (al centro) e alcuni degli altri membri, da sinistra: Lily Gladstone, Nadine Labaki, Eva Green e Juan Antonio Bayona, Cannes, Francia, 25 maggio 2024
(REUTERS/Yara Nardi)
La presidente della giuria del festival di Cannes Greta Gerwig (al centro) e alcuni degli altri membri, da sinistra: Lily Gladstone, Nadine Labaki, Eva Green e Juan Antonio Bayona, Cannes, Francia, 25 maggio 2024 (REUTERS/Yara Nardi)
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Far parte della giuria di un grande festival di cinema internazionale è un lavoro non pagato, con molti obblighi e qualche vantaggio, a cui si sottopongono regolarmente da decenni le personalità più importanti del cinema di tutto il mondo. Per loro è un’occasione di marketing personale e pubbliche relazioni, oltre che un modo per consolidare rapporti lavorativi. Per i festival invece la qualità delle persone che giudicano è una questione di prestigio e rafforza l’idea che il premio assegnato sia importante, perché conferito dalle personalità più stimate dell’industria.

Storicamente hanno fatto parte delle giurie grandi scrittori, filosofi, intellettuali, giornalisti, critici e curatori di musei: chiunque avesse un profilo intellettuale. Da una ventina d’anni si è consolidata l’abitudine di coinvolgere solo chi i film li fa, con una preferenza per attori e registi. È noto che le decisioni di ogni giuria abbiano molto di personale, contingente agli eventi e alle discussioni, e ben poco di universale, anche perché fare il giurato è più faticoso di quello che si possa credere.

Le giurie possono essere più o meno ampie a seconda dell’importanza e delle potenzialità dell’organizzazione. Nei festival più importanti i giurati negli ultimi decenni sono stati tra i 7 (come alla Berlinale) e i 9 (come a Venezia o Cannes), incluso il presidente di giuria. Tutti i membri devono vedere tutti i film in concorso e poi decidere a quali assegnare il premio o i premi del festival, e la cosa non è semplice. Nei festival grandi come nei piccoli, le personalità coinvolte sono spesso ingombranti, cosa che può rendere pesanti i giorni passati insieme, e non per forza chi lavora nel cinema ha voglia di vedere molti film uno di fila all’altro. Se si è giurati a Venezia o Cannes si parla di una media di un paio di film al giorno per dieci giorni, con durate tra i 90 minuti e le 4 ore, anche se la media tende a essere di poco più di due ore a film.

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Solitamente i giurati vedono i film durante la prima, cioè alla proiezione di gala con tappeto rosso, abito lungo e cast e autori del film in sala. Il fatto che ci sia la giuria è ragione di prestigio, i giurati sono tenuti in bella vista e hanno una parte della platea a sé dedicata. Queste proiezioni si svolgono tra il pomeriggio e la sera, e possono facilmente avvenire una dopo l’altra, cosa che può influire sul giudizio. Vedere un film molto pesante per soggetto, durata o ritmo, e subito dopo uno più leggero, può influire positivamente sulla ricezione e l’impressione del secondo rispetto al primo. Oppure vedere un film un po’ ambizioso e riuscito dopo uno velleitario può svantaggiare il primo.

Non sempre tutti i giurati riescono a essere presenti a tutte le prime, anzi è raro che ci siano tutti ogni volta, e in questi casi possono recuperare i film in proiezioni private nel corso della mattina o del pomeriggio, in piccole sale. I festival solitamente affiancano ai giurati degli “assistenti personali” per ogni esigenza o richiesta che hanno e che il festival può soddisfare, ma soprattutto per controllare che guardino tutto quello che devono guardare e fino alla fine. Da questo si capisce come non tutti i giurati abbiano un’etica di ferro nel guardare e giudicare, e accettino il ruolo per il bene che pensano possa fare alla loro carriera. È capitato che alcuni giurati non avessero mai visto un film di quattro ore prima di far parte di una giuria o che non avessero cognizione di film che non fossero del loro paese.

Il presidente di giuria è invece la persona che gestisce i lavori, decide come procedere e conduce le conversazioni. Benché ogni giuria possa lavorare nella maniera che preferisce esistono alcune consuetudini che i festival consigliano: dopo ogni film o al termine di ogni giornata i giurati si riuniscono e discutono di ciò che hanno visto, esprimendo i loro pareri e prendendo nota di cosa hanno apprezzato e cosa invece li ha delusi, così che attraverso il confronto si inizi a delineare un percorso e ognuno possa anche chiarire le proprie idee.

La giuria del festival di Cannes del 2023, da sinistra: Paul Dano, Denis Ménochet, Brie Larson, il presidente della giuria Ruben Östlund, Damian Szifron, Julia Ducournau, Atiq Rahimi e Maryam Touzani, Cannes, Francia, 16 maggio 2023 (Pascal Le Segretain/Getty Images)

Sta al presidente di giuria decidere quanto durano questi incontri e come vengono condotti. Spesso capita che chi è stato in una giuria, qualche anno dopo, ne parli liberamente. Sappiamo per esempio dal regista italiano Matteo Garrone che nel 2012 a Venezia Michael Mann fu un presidente di giuria estremamente serio e rigoroso, dal piglio simile a un comandante, e finì per decidere quasi tutto lui. Sappiamo invece dal regista cinese Zhang Yimou stesso che la sua direzione di giuria di Venezia nel 2007 fu il massimo della libertà: non interferì con il lavoro dei giurati e li lasciò decidere. Tra questi estremi si situano tutti gli altri.

Il giorno prima della premiazione, quando hanno visto tutti i film, la giuria stila la lista di premiati con una riunione di alcune ore. I direttori di festival hanno spesso smentito che le organizzazioni possano influire sul giudizio spingendo nella direzione di qualche film, e nessun giurato ha mai raccontato ai giornali che un festival abbia fatto pressione per premiare un certo titolo. Al contempo però sappiamo che non esiste grande festival nel cui palmarès, cioè nell’elenco dei premiati, non ci sia ogni anno almeno un film del paese ospitante.

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Il momento dell’assegnazione dei premi è il più difficile, come si può immaginare. La prassi più consigliata dai festival stessi è decidere quali film premiare, quelli che sono piaciuti di più o che hanno più voti, e poi in quel novero assegnare i vari premi (quelli per gli attori, quelli alla regia, le menzioni speciali e ovviamente il primo premio). Per questa ragione è molto frequente che se non c’è un film che mette d’accordo tutti, come in tempi recenti è stato Parasite a Cannes, le giurie entrino in conflitto, dividendosi in schieramenti su due o tre film, senza trovare un accordo. In quei casi si finisce per premiare la seconda scelta di tutti, cioè un altro film che non dispiace a nessuno. Una scelta sicura.

Capita che un presidente di giuria particolare faccia scelte imprevedibili. Tim Burton, presidente di giuria a Cannes nel 2010, diede la Palma d’oro a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, del tipo che difficilmente trova l’accordo di molti giurati. La ragione che Burton stesso diede fu: «Volevo premiare qualcosa di strano e particolare». Oppure può capitare che alcuni giurati dirottino la giuria.

Racconta Nanni Moretti di aver fatto qualcosa di simile nel 1997, quando fu giurato a Cannes. La presidente era Isabelle Adjani, che non riuscì ad arginare l’esuberanza di Moretti nel discutere e voler continuare a parlare dei film a oltranza, con l’obiettivo di sfiancare tutti e imporre i suoi preferiti. Si crearono diverse fratture, sia con la presidente sia con il giurato Mike Leigh, molto infastidito dalla maniera in cui indirettamente Moretti cercava di promuovere alcuni film. Alla fine la Palma d’oro andò ex aequo a L’anguilla di Shohei Imamura e a Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami, uno dei cineasti più amati da Moretti.

La giuria del festival di Cannes del 1997, da sinistra: Tim Burton, Luc Bondy, Patrick Dupond, Gong Li, la presidente della giuria Isabelle Adjani, Mira Sorvino, Mike Leigh, Michael Ondaatje, Nanni Moretti e Paul Auster, Cannes, Francia, 7 maggio 1997 (REUTERS/John Schults)

Può accadere anche che i rapporti nelle giurie vadano così male da influenzare la premiazione. Una storia che circola molto nell’ambiente, ma che i diretti interessati non hanno mai confermato, è che nel 1992 a Cannes i rapporti nella giuria presieduta da Gérard Depardieu, in cui c’erano anche Pedro Almodóvar, John Boorman, Jamie Lee Curtis e Carlo Di Palma, furono così burrascosi che finirono per votare gli uni contro i film amati dagli altri, e la Palma d’oro andò a un film che non era piaciuto a nessuno: Con le migliori intenzioni di Bille August.

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Nonostante ciò, stare nella giuria di un grande festival in realtà è un modo per fare amicizie e conoscere personalità anche importanti che altrimenti si potrebbe faticare a raggiungere. Quando Paolo Sorrentino vinse il premio della giuria a Cannes nel 2008 il presidente di giuria era Sean Penn. Grazie a quella partecipazione Penn vide e amò un film di Sorrentino, all’epoca poco noto. I due poi fecero insieme This Must Be the Place, cosa che difficilmente sarebbe accaduta senza il festival. Stare in giuria però può essere importante anche per sostenere amici e conoscenti. Non dovrebbe accadere, ma ogni giurato è un essere umano e ha i suoi interessi e in certi casi conflitti di interesse.

Quando Quentin Tarantino fu presidente di giuria a Venezia diede il Leone d’oro a Somewhere, diretto dalla sua ex fidanzata Sofia Coppola. Sempre a Venezia Guillermo Del Toro come presidente di giuria premiò Roma di Alfonso Cuarón con il Leone d’oro: oltre a essere molto amici ed entrambi messicani, i due avevano una società insieme, la Cha Cha Cha Films (con Alejandro González Iñárritu).

La giuria del festival del cinema di Venezia del 2010, da sinistra: Luca Guadagnino, Danny Elfman, Arnaud Desplechin, Gabriele Salvatores, Ingeborga Dapkunaite, il presidente della giuria Quentin Tarantino e Guillermo Arriaga, Venezia, 11 settembre 2010 (Franco Origlia/Getty Images)

Più normali invece sono le situazioni in cui i giurati si spendono per sostenere i film del proprio paese; nei limiti del ragionevole la cosa è apertamente tollerata. Pupi Avati racconta spesso di essersi molto battuto per convincere il presidente di giuria Clint Eastwood a dare un premio a Caro diario di Moretti a Cannes. Eastwood aveva odiato il film, non lo aveva proprio capito; Avati non solo perorò la causa, ma usò la ricezione della stampa e della critica francese per dimostrare che non andava ignorato. Nanni Moretti vinse il premio alla regia quell’anno, lo stesso in cui la Palma d’oro fu vinta da Pulp Fiction, che per l’appunto fu premiato da una giuria guidata da Clint Eastwood e in cui c’erano Catherine Deneuve e Pupi Avati. Questo dimostra che non sempre è facile capire dalla composizione della giuria quali film potranno vincere.

Lo stesso Tarantino, i cui gusti sono molto noti, a Venezia premiò Somewhere e nel 2004 a Cannes Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, invece di due film apparentemente più vicini alle sue passioni come 13 assassini di Takashi Miike e Oldboy di Park Chan-wook. Pedro Almodóvar da presidente premiò The Square di Ruben Östlund e non un film che raccontava le lotte degli attivisti LGBT di Act Up-Paris negli anni Ottanta durante l’epidemia di AIDS, 120 battiti al minuto; e uno dei film più sessualmente espliciti a vincere la Palma d’oro, La vita di Adele, fu premiato da un regista estremamente pudico come Steven Spielberg.